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venerdì 26 luglio 2013

IL GIUSTIZIALISMO PERONISTA

di DANILO CARUSO


indice 
1.1. L’IDEOLOGIA DELLA TERCERA POSICIÓN
1.2. LA FONDAZIONE “EVA PERÓN”
2.1. CANTI DEL GIUSTIZIALISMO: “EVITA CAPITANA” E “LA MARCIA PERONISTA” 
2.2. “A PRANZO CON EVITA”, CANZONE DEL QUARTETTO CETRA 



1.1. L’IDEOLOGIA DELLA TERCERA POSICIÓN 


Donde existe una necesidad nace un derecho

EVA PERÓN 


Il justicialismo è un sistema di pensiero politico formatosi in Argentina negli anni ’40 a opera del generale Juan Domingo Perón (1895-1974): quand’era ancora colonnello era stato in Italia ed era rimasto colpito dagli esperimenti e dalla dottrina sociale fascisti. Il golpe militare del 1943 sostenuto da ufficiali progressisti, di cui lui faceva parte, destituì un governo argentino che era controllato dall’oligarchia conservatrice borghese che controllava il paese attraverso i grandi latifondi e le grandi imprese, e che lo aveva posto alla mercé del capitale inglese e americano. Perón (che qualcuno pensò fosse diventato comunista), avendo avuto nel nuovo regime la responsabilità delle politiche del lavoro, avviò una serie di significative misure, in collaborazione con l’altro colonnello Mercante (figura considerevole del primo peronismo), a difesa della classe lavoratrice: creazione dei tribunali del lavoro, stipula di contratti collettivi di lavoro, aumenti salariali, indennità di licenziamento, statuti del bracciante agricolo e del giornalista, regolamentazioni delle associazioni professionali, unificazione del sistema di previdenza sociale, pensioni, creazione dell’ospedale per i ferroviari, scuole tecniche per operai, proibizione di agenzie di collocamento private. Le condizioni della classe operaia e bracciantile argentina cambiarono a tal punto che a causa della sua popolarità il governo allarmato lo fece arrestare nell’ottobre del ’45 (allora era vicepresidente della repubblica, ministro della difesa, segretario al lavoro). La colossale mobilitazione di popolo promossa dai sindacati peronisti costrinse la dittatura a rimettere in libertà Perón e a garantire libere elezioni. Una marea di Argentini davanti alla Casa rosada in Plaza de mayo a Buenos Aires gridava a ripetizione: «Queremos a Perón!!!». Il quale il 17 ottobre (celebrato nel peronismo come el día de la lealtad) parlò dal balcone del palazzo presidenziale rassicurando tutti. Le elezioni si tennero nel febbraio del ’46 (il sistema amministrativo argentino ricalca quello statunitense): a suffragio maschile vinse Perón, senza brogli e senza raccogliere una maggioranza bulgara, per circa 1.500.000 voti contro 1.200.000. Aveva avuto contro uno schieramento di partiti che andava dalla sinistra alla destra, sostenuto dagli USA e dagli Inglesi che perderanno il controllo economico e politico dell’Argentina. Durante il governo peronista, accanto al quale fu Evita (1919-1952), moglie del presidente e infaticabile portabandiera degli umili e dei diseredati (abanderada de los humildes), il paese fu modernizzato sotto tutti i punti di vista. Perón attuò un programma che diede tanti risultati: nazionalizzazioni di servizi pubblici (ferrovia, telefonia, servizi del gas, etc.) e gestione statale del commercio estero in modo da liberarsi da condizionamenti stranieri; nazionalizzazione della banca nazionale e divieto di esportare i capitali per difendere lo sviluppo economico interno; case, infrastrutture (reti idriche e fognarie, etc.); politiche sanitarie (assistenza gratuita, aumento dei posti letto, campagne mediche contro malattie); diminuzione della mortalità infantile e innalzamento del periodo medio di vita; comparsa della televisione (Televisión Radio Belgrano, oggi Canal 7); gratuità dell’istruzione, abolizione delle tasse universitarie, creazione dell’Università operaia, aumento del tasso di scolarizzazione; aumenti salariali, partecipazione agli utili d’impresa da parte dei lavoratori, periodi di vacanza per le loro famiglie a carico dello Stato; riforma agraria; politiche contro la disoccupazione; pensioni; etc.
Unitamente, la FUNDACIÓN EVA PERÓN, da Evita stessa diretta, operò meritevolmente su vasta scala per sollevare gli indigenti dal bisogno producendo molto: costruzione di ospedali, asili, scuole, colonie di vacanza, abitazioni, strutture di accoglienza per bambini, donne nubili, impiegate, anziani; promozione della donna, scuole per infermiere; borse di studio, sport per i giovani; aiuti alle famiglie più povere; etc.
Unitamente, la FUNDACIÓN EVA PERÓN, da Evita stessa diretta, operò meritevolmente su vasta scala per sollevare gli indigenti dal bisogno producendo molto: costruzione di ospedali, asili, scuole, colonie di vacanza, abitazioni, strutture di accoglienza per bambini, donne nubili, impiegate, anziani; promozione della donna, scuole per infermiere; borse di studio, sport per i giovani; aiuti alle famiglie più povere; etc.
Alcuni ne parlano come una macchina clientelare: perché aiutare il prossimo deve diventare clientelismo? E poi quale clientelismo nell’aiutare pure popolazioni estere sudamericane colpite da terremoti o persino il neonato Stato d’Israele? Qui, riguardo a Israele, è opportuno soffermarsi poiché l’Argentina ospitò nell’ultimo dopoguerra criminali nazisti in fuga: il peronismo non era razzista né tanto meno antisemita; l’ospitalità garantita ai criminali di guerra (cosa che costituisce una macchia non ideologica) era un fenomeno precedente l’elezione di Perón alla presidenza. Costoro furono protetti in un contesto che è più ampio, un contesto in cui l’Occidente li riciclava in funzione anticomunista (uno di loro in Usa fu addirittura dirigente della CIA) e in cui gli storici parlano anche di responsabilità del Vaticano come centrale di smistamento. In Argentina (che già godeva di proprie grandi risorse) i Tedeschi portarono capitali imprenditoriali e non: averli protetti dalla giustizia internazionale dato che i militari argentini erano ammiratori di quelli tedeschi (non in quanto nazisti) è stato un errore di Perón e di tutto l’Occidente. I nazisti non condizionarono il peronismo: sennò perché nel 1951 Golda Meir, allora ministro del lavoro israeliano, si sarebbe recata in Sud America per ringraziare personalmente Eva Perón dei summenzionati aiuti della fondazione? Questa storia dei nazisti, di cui si seppe meglio quando il presidente giustizialista Menem fece aprire gli archivi nel ’92 è a metà strada tra opportunismo e ammirazione formale. Non ritorna a onore di Perón, ma non gli è interamente addebitabile poiché il regime del 1943-46 non era guidato da lui (lui era emerso nettamente nel ’44). La situazione che successivamente si trovò (e contro cui non intervenne) era condizionata pure dal sostegno che ricercava presso la Chiesa, coinvolta a detta degli storici nella faccenda. Il giustizialismo persegue la tercera posición tra il socialismo e il capitalismo, si propone di conciliare tutte le classi sociali senza antagonismi e senza presentarsi come ideologia antagonista di altre: sia la dottrina sociale della Chiesa che il fascismo hanno espresso questo concetto di terza via. Nel justicialismo l’economia è strumento del benessere collettivo e perciò deve sottostare al controllo e alla regolamentazione pubblici pur rimanendo in una condizione di libero mercato. Un’assemblea costituente, presieduta da Domingo Mercante, nel 1949 elaborò una nuova costituzione che incorporava i principi del giustizialismo. In particolare l’articolo 37 costituzionalizzava i diritti dei lavoratori (diritto al lavoro, a una giusta retribuzione, alla formazione, a condizioni di lavoro degne, alla preservazione della salute, al benessere, alla sicurezza sociale, alla protezione della propria famiglia, al miglioramento economico, alla difesa degli interessi professionali), i diritti della famiglia e i diritti degli anziani (elenco provenuto dal Decálogo de la ancianidad proclamato precedentemente da Evita: diritto all’assistenza, alla casa, all’alimentazione, al vestito, alla cura della salute fisica e morale, allo svago, al lavoro, alla tranquillità, al rispetto). Questo che segue è il manifesto del Partido justicialista con i suoi venti punti così come furono enunziati nel 1950 da Perón. 

1 - La vera democrazia è quella in cui il governo compie la volontà del popolo e difende un solo interesse: quello del popolo.
2 - Il peronismo è essenzialmente popolare. Ogni fazione politica è antipopolare e pertanto non è peronista.
3 - Il peronista lavora per il movimento. Colui che in nome del partito serve una fazione o un caudillo è peronista soltanto di nome.
4 - Per il peronismo c’è soltanto una classe di uomini: quella degli uomini che lavorano.
5 - Nella nuova Argentina il lavoro è un diritto che dà dignità all’uomo, ed è un dovere perché è giusto che produca almeno quanto consuma.
6 - Per un peronista non vi può essere niente di meglio di un altro peronista.
7 - Nessun peronista deve sentirsi di più di quello che è, né meno di quello che può essere. Quando un peronista comincia a sentirsi superiore a quello che è, sta già trasformandosi in un oligarca.
8 - Nell’azione politica, la scala dei valori di ciascun peronista è la seguente: prima la patria, poi il movimento e infine gli uomini.
9 - Per noi la politica non è un fine ma soltanto un mezzo per il bene della patria che è costituito dalla prosperità dei suoi figli e dalla sua grandezza nazionale.
10 - Le due braccia del peronismo sono la giustizia sociale e l’assistenza sociale. Con esse diamo al popolo un abbraccio di giustizia e di amore.
11 - Il peronismo aspira all’unità nazionale e non alla lotta. Desidera eroi ma non martiri.
12 - Nella nuova Argentina gli unici privilegiati sono i bambini.
13 - Un governo senza dottrina è come un corpo senz’anima. Perciò il peronismo ha una sua propria dottrina politica, economica e sociale: il giustizialismo.
14 - Il giustizialismo è una nuova concezione della vita, semplice, pratica, popolare, profondamente cristiana e profondamente umanista.
15 - Il giustizialismo, come dottrina politica, realizza l’equilibrio dell’individuo con quello della comunità.
16 - Il giustizialismo, come dottrina economica realizza l’economia sociale, mettendo il capitale al servizio dell’economia e quest’ultima al servizio del benessere sociale.
17 - Il giustizialismo, come dottrina sociale, realizza la giustizia sociale che dà a ciascuno il suo diritto in funzione sociale.
18 - Vogliamo un’Argentina socialmente giusta, economicamente libera e politicamente sovrana.
19 - Costruiamo un governo centralizzato, uno Stato organizzato e un popolo libero.
20 - In questo paese ciò che abbiamo di meglio è il popolo. 

L’evitismo fu nel justicialismo una componente integrante determinante che spinse ancor di più verso il raggiungimento dei frutti raccolti. La figura di Mercante cadde nell’oblio dopo il suo fallito tentativo di succedere a Perón nel novembre del ’51. Il generale sarà rieletto a suffragio universale con circa 4.600.000 voti contro 2.300.000. Nel frattempo le donne, grazie all’instancabile impegno di Evita, avevano ottenuto il riconoscimento dei propri diritti: con una legge del ’47 l’elettorato attivo e passivo (ci furono infatti peroniste: 23 deputate, 6 senatrici, 109 parlamentari nelle province), con l’art. 37 della nuova costituzione (nella parte riguardante la famiglia) l’uguaglianza giuridica tra i coniugi, l’assistenza alle madri e ai bambini. L’uguaglianza di diritti politici tra uomini e donne aveva comportato la nascita del Partido peronista femenino, cui spettava un terzo delle candidature giustizialiste. La prematura scomparsa di Eva Perón segnò un durissimo colpo per il popolo argentino che da allora non l’ha mai dimenticata. Il secondo mandato presidenziale di Perón terminò anticipatamente per via del golpe del ’55: egli se ne andò spontaneamente in esilio per allontanare il pericolo di una guerra civile. In quel periodo 1952-55 erano venuti a galla i contrasti tra Chiesa e peronismo: la prima cercava un proprio braccio di manovra politica in un partito democristiano a danno del Partito giustizialista, il secondo non tollerava l’ingerenza ecclesiastica negli affari pubblici. L’episcopato argentino era contrario all’annullamento della discriminazione tra i figli illegittimi e quelli legittimi. Il Parlamento approvò una legge di equiparazione, l’altra sul divorziò, la legalizzazione delle case di tolleranza e puntualizzò la separazione tra Stato e Chiesa (l’insegnamento religioso nelle scuole fu abolito). Le alte gerarchie ecclesiali argentine erano alleate dell’oligarchia: nonostante tutto ciò la Costituzione del 1949 trattava con moltissimo riguardo il Cattolicesimo (lo sosteneva, e prevedeva che il Presidente dovesse essere di religione cattolica: era stato costituzionalizzato il diritto di patronato nella presentazione dei vescovi, beneficio di cui lo Stato godeva da tempo addietro), e le encicliche sociali erano considerate dal giustizialismo spunto ideologico e movente d’azione pratica (attualmente il Partido justicialista è affiliato all’Internazionale democristiana). In politica estera l’Argentina peronista mirò infruttuosamente alla creazione di un terzo schieramento mondiale che s’incuneasse tra quelli di USA e URSS, un blocco dei Paesi latini d’Europa e d’America di cui divenir leader (nel ’46 aveva ristabilito relazione con l’Unione sovietica e durante la guerra di Corea aveva ignorato la richiesta d’invio di truppe rivoltale dagli Stati Uniti). Perón rientrò in Argentina nel 1973, quando i militari si arresero alla volontà popolare. Le dittature post-peroniste avevano dichiarato fuorilegge il Partito giustizialista, revocata la Costituzione del ’49 e riaperto il carcere di Ushuaia (chiuso nel 1947 a causa delle sue pessime condizioni) per detenervi nemici politici, inoltre (cose non fatte nel 1946-55) messo al bando il Partito comunista e reintrodotta la pena capitale. Gli Argentini vecchi e giovani non avevano abbandonato il ricordo di quella società più giusta costruita con la passione di Evita e con la guida di Perón (per un secolo fino al 1912 era esistito il voto cantado ossia l’elettore al seggio rendeva pubblicamente noto per chi votava, il governo peronista aveva mantenuto il voto segreto; il dato nazionale sulla ripartizione dei guadagni d’impresa aveva assegnato nel 1948 il 53% ai lavoratori, laddove questo si era attestato al 44,4% nel ’43). Negli anni seguiti al movimento del ’68 la terza presidenza di Perón (’73-’74, eletto con il 62% dei voti) fu condizionata dal suo pessimo segretario personale José López Rega, divenuto ministro, un anticomunista che alimentò tensioni sociali e persecuzioni politiche. Un anno dopo la morte del generale fu costretto a scappare mentr’era presidentessa María Estela Martínez (Isabelita, terza moglie di Perón, succedutagli nella carica in quanto vicepresidentessa). Del ’75 era un progetto di legge giustizialista mirante a dare ai lavoratori una forma partecipativa nella gestione delle imprese. Nel ’76 un nuovo golpe depose il governo democratico, l’ultima dittatura cadrà in seguito alla guerra delle Malvine. Il justicialismo non disprezza il comunismo. Nelle lezioni di Evita alla Scuola superiore peronista si sottolinea come Marx mettesse a fuoco problemi reali, ma anche come la via della risoluzione traumatica non fosse la più adatta e la più congeniale all’instaurazione di un regime di giustizia sociale. Dopo Isabelita i gruppi estremi della sinistra (peronisti e marxisti) furono perseguitati dalla dittatura duramente fino a essere annientati (il triste fenomeno dei desaparecidos). I Montoneros erano seguaci del peronismo che ambivano al socialismo reale e che per cercare di esercitare pressioni su Perón si spinsero fino ad atti di violenza. L’obiettività richiede che si accenni alla storia dei presunti depositi bancari svizzeri di Evita e Perón per dire che questa si è rivelata una fantastoria dato che nessuno li ha mai trovati: un’ipotesi, a questo punto, più “storica” suggerisce di vedere nella visita in Svizzera di Eva Perón, durante il suo viaggio in Europa nel ’47, lo scopo di effettuare dei controlli medici personali.



1.2. LA FONDAZIONE “EVA PERÓN” 


Nell’Argentina del passato la carica di presidentessa onoraria della Sociedad de beneficencia veniva riservata alla moglie del presidente della repubblica in carica. Quando Perón fu eletto tuttavia le dame dell’oligarchia borghese rifiutarono di concedere questo ruolo a Evita con l’ipocrita giustificazione che fosse troppo giovane e inesperta. Nel momento in cui le rifiutarono pure di nominare al suo posto la madre, poiché le motivazioni reali di tutto ciò stavano nel disprezzo, la Società fu chiusa con atto governativo il 6 settembre 1946. Potrebbe sembrare che questa misura di scioglimento sia unicamente un atto di vendetta, sennonché la pessima gestione di questa organizzazione, che controllava molte strutture ospedaliere, era già emersa nel 1939: tutti i dipendenti venivano sfruttati con pesanti turni lavorativi e sottopagati, nelle case-scuola (più simili a delle prigioni) anche i bambini erano costretti a lavorare e persino a mendicare, solamente il 5% dei fondi raccolti andava a sostegno dell’assistenza (tutto il resto concerneva spese di gestione). La sua opportuna soppressione diede spazio al riordino, non fu il caso di Evita nella sostanza a determinarne la fine. La Fundación María Eva Duarte de Perón fu istituita a metà del 1948, sempre con atto governativo (a fine 1950 sarà ridenominata Fundación Eva Perón). Al termine del 1947 operava però già la Cruzada de ayuda social María Eva Duarte de Peróncon azioni poi proprie della Fundación. La precedente Società di beneficenzanon andava al di là del finanziamento di istituti preesistenti. Evita invece si preoccupò di intervenire con la creazione di opere anche in tutti quei campi che il settore pubblico non riusciva con facilità a tutelare. Dedicava periodicamente molte e intense ore a incontrare personalmente nella sede del Ministero del lavoro i bisognosi che si recavano a porle richieste d’aiuto. In un suo discorso chiarì che la Fundación «fue creada para cubrir lagunas en la organización nacional, porque en todo el país donde se realiza una obra, siempre hay lagunas que cubrir y para ello se debe estar pronto para realizar una acción rápida, directa y eficaz». Il denaro della Fundación, che non passava dalle sue mani, proveniva da spontanee contribuzioni di privati o enti pubblici, o dal gettito di misure ad hoc. Tra il ’50 e il ’53 furono scelte queste fonti:
  • aumento del 3% del biglietto d’ingresso all’ippodromo di Buenos Aires e tributo addizionale del 3% sulle scommesse;
  • trattenute degli stipendi del primo maggio e del 12 ottobre, e del 2% delle tredicesime;
  • l’intero gettito delle multe sui giochi d’azzardo;
  • deduzioni da miglioramenti salariali ai pubblici dipendenti; nelle vertenze di lavoro tra soggetti privati risolte da Evita c’era l’usanza di offrire una percentuale di qualche mensilità;
  • il 50% dell’avanzo utile prodotto dalle assicurazioni per le manifestazioni sportive.
Si rivela dunque falsa l’accusa che vorrebbe le opere sostenute con modi estortivi. Le imprese private contribuivano spontaneamente senza sollecitazioni o per ringraziamento o per l’ottenimento del credito bancario presso l’Istituto argentino di promozione industriale che Evita poteva rendere più facile. Eva Perón non era Eva Kant: una commissione d’inchiesta della prima dittatura post-peronista accertò che i presunti fatti di estorsione e corruzione erano totalmente irreali e che tutto si era svolto nel rispetto della legalità. Il fatto che lo Stato mettesse a disposizione della Fundación risorse economiche, materiali e umane suscitò a suo tempo la reazione dell’opposizione parlamentare antiperonista, i cui esponenti nulla avevano obiettato negli anni antecedenti riguardo ai cospicui finanziamenti pubblici elargiti alla Sociedad de beneficencia. Beneficiarono della straordinaria attività assistenziale diretta da Evita pure decine di paesi stranieri, cui furono forniti vestiti, alimenti e farmaci. In seguito al colpo di Stato del 1955 che depose Perón il positivo complesso di ciò che era stato prodotto dalla Fundación o fu destinato a improprio e pessimo utilizzo o peggio ancora radicalmente cancellato. Questo un elenco non esaustivo di quanto attuato:
  • ogni anno venivano distribuite enormi quantità di macchine per cucire, capi di vestiario, alimenti, libri, biciclette e giocattoli;
  • 181 punti per la vendita di prodotti di prima necessità a prezzi ridotti furono creati per sostenere le famiglie più bisognose;
  • più di 13.000 donne trovarono un’occupazione;
  • quasi 2.400 furono gli alloggiati nelle case per anziani abbandonati (ne furono aperte 6);
  • più di 16.000 bambini furono ospitati nelle case-scuola (20 comprese quelle in costruzione, dislocate in 16 province con una capacità di più di 25.000 posti);
  • un’opera di monitoraggio medico-sanitario era rivolta a tutti i giovani che partecipavano agli annuali concorsi nazionali sportivi (nel 1949 furono 120.000);
  • la Casa dell’impiegata a Buenos Aires, un edificio di 11 piani di cui 9 dormitori, forniva alloggio a tutte le lavoratrici bonaerensi senza dimora, con basso reddito e senza riferimenti familiari in città; aveva una capienza per 500 donne e offriva un servizio di mensa quotidiana per 1.500 coperti accessibile a tutti e a costi ridotti presso cui Evita aveva l’abitudine di cenare con i suoi collaboratori;
  • poco più di 16.000 persone furono ospitate nelle 3 case di alloggio temporaneo in attesa di ricevere un’abitazione; la Fundación fece costruire case assegnate a decine di migliaia di famiglie (a poco più di 20.000 tra queste che emigrate si trovavano a Buenos Aires senza redditi era stato consentito nel 1948-50 di ritornare nella provincia d’origine ottenendo un’abitazione e un’occupazione);
  • 21 ospedali, distribuiti in 11 province, di cui 4 a Buenos Aires (avevano disponibilità di quasi 23.000 posti letto); altre 3 strutture specifiche erano riservate ai bimbi e una agli ustionati; il completamento di due ospedali, tra cui quello dei bambini a Buenos Aires, fu sospeso dopo la caduta di Perón;
  • furono edificati un migliaio di scuole e diverse colonie turistiche nel 1948-50;
  • un milione e mezzo di bottiglie di sidro e di pan dolce venivano donati annualmente per Natale ai meno abbienti.
L’architettura e l’arredo delle opere della Fundación erano di altissimo pregio e riflettevano il più autentico spirito di fratellanza umana. I servizi offerti erano gratuiti e di ottimo livello. Era costante un’efficace assistenza socio-sanitaria rivolta ai soggetti svantaggiati tutelati. I bambini più disagiati avevano la possibilità di raggiungere gli studi universitari passando per gradi attraverso le accoglienti e confortevoli case-scuola, città di studio e città universitarie. La Ciudad infantil Amanda Allen, intitolata a un’infermiera argentina della Fundación scomparsa in una sciagura aerea durante l’intervento di soccorso alle vittime di un terremoto in Ecuador, accoglieva a Buenos Aires soggetti emarginati tra i 2 e i 7 anni. Il progetto di recupero seguiva il pensiero della pedagogista italiana Maria Montessori. La Ciudad, che accudiva alcune centinaia di bimbi, fu chiusa dai militari golpisti nel 1955, e la sua connessa città per piccoli, divenuta quindi parco per benestanti, fu demolita nel ’64 per lasciare spazio a un parcheggio. Nelle case-scuola un gruppo di assistenti sociali curava i rapporti con le famiglie di provenienza dei bambini (che avevano un’età compresa tra 4 e 10 anni). Era desiderio di Evita che costoro non perdessero i loro rapporti con l’esterno a seconda della propria forma di soggiorno nell’istituto (in alcuni casi venivano affidati a dei tutori). L’abbigliamento, che era di qualità, veniva rinnovato ogni sei mesi e poi distrutto. L’istruzione era curata attentamente anche con aggiuntivo insegnamento di sostegno, e per le bambine c’erano inoltre corsi integrativi che potevano riguardare l’arte, la musica, il ballo, la cucina e la cucitura. Anche alle ragazze era prospettata la prosecuzione degli studi all’università nella Ciudad universitaria di Cordova da inaugurarsi secondo le previsioni nel 1956, ma il completamento suo e di quella di Mendoza dopo Perón fu bloccato dalla dittatura: la prima avrebbe potuto ospitare 400 studenti argentini e 150 stranieri. Sulla stessa falsariga non si giunse neanche a ultimare la ciudad estudiantil femminile, infatti le ragazze seguivano provvisoriamente l’istruzione secondaria permanendo nella casa-scuola. Furono costruite 3 ciudades estudiantiles a Buenos Aires, Cordova e Mendoza per gli studenti provenienti da fuori. Alla Fundación si doveva altresì la mensa universitaria di La Plata in provincia di Buenos Aires. Il nuovo governo golpista del ’55 sciolse la Fundación e chiuse le sue istituzioni. Il suo capitale fu in parte rubato e le sue sostanze materiali illecitamente sottratte. I servizi e l’assistenza precedenti furono giudicati fuori luogo, eccessivi e persino lussuosi. I mobili di tutte le strutture, e i regali ricevuti da Evita nel suo viaggio in Europa, che in queste si trovavano, posti come abbellimento, furono rimossi. Si distrussero flaconi per la raccolta del sangue, lenzuola e coperte perché recavano l’etichetta Fundación Eva Perón, i polmoni d’acciaio finirono sotto sequestro per lo stesso motivo. Qualche altro esempio del destino che i militari e gli antiperonisti riservarono ai frutti dell’amorevole impegno di Evita per la difesa delle categorie sociali disagiate: un ospedale per i bambini fu trasformato in un hotel-casinò e la ciudad estudiantil di Buenos Aires fu addirittura adibita a luogo di reclusione di componenti del governo peronista. Dopo parecchi studenti ebbero l’opportunità di proseguire a studiare fuori dell’Argentina con borse di studio estere grazie alla qualità del percorso formativo svolto che era stato all’avanguardia e supportato di tutto ciò che occorresse (vestiario, libri, attrezzature scolastiche, e così via). Quanto accaduto in una casa-scuola convertita in centro di collocamento lavorativo è emblematico. Le bambine, cui era stata tolta la possibilità di apprendere per andare a lavorare nelle abitazioni dei borghesi, protestarono dal cortile gridando: «Queremos que vuelva Perón!!!». Evita era scomparsa nel 1952, ma sino alla fine la sua fondazione aveva lavorato, pur avendo perso lo slancio dato dalla propria animatrice, per rimuovere il disagio sociale.



2.1. CANTI DEL GIUSTIZIALISMO
“EVITA CAPITANA” E “LA MARCIA PERONISTA”




2.2. “A PRANZO CON EVITA”
CANZONE DEL QUARTETTO CETRA



 

giovedì 25 luglio 2013

LA FABBRICA DEL MALE

di DANILO CARUSO 

Il nazionalsocialismo è stato nella storia dell’umanità tra le peggiori ideologie che hanno ispirato e provocato comportamenti la cui portata talmente negativa le qualifica come ideologie del male. Sarebbe bastato il solo programma politico nazista, esposto da Adolf Hitler nel suo libro “Mein kampf” (La mia battaglia), per esprimere un tale giudizio al di là dell’esperienza storica della Germania hitleriana dal 1933 al 1945. Le radici del nazismo si trovavano in aspetti del patrimonio culturale tedesco senza le quali il suo attecchimento e il suo sviluppo sarebbero stati più difficili. L’antisemitismo, il pangermanismo e l’avversione alla democrazia, che lo connotarono in maniera peculiare, avevano illustri precedenti da Lutero al Romanticismo tedesco fino a Friedrich Nietzsche. Questo, miscuglio sovrappostosi alla sconfitta della Germania nella Grande guerra, creò la base su cui i nazisti avrebbero costruito la via per l’instaurazione di uno Stato totalitario. Nel cammino verso il governo costoro specularono sulle disgrazie dei Tedeschi nel dopoguerra: l’instabilità socioeconomica garantì il considerevole appoggio dei capitalisti, che durante la dittatura ebbero a disposizione lavoratori privati dei loro diritti di categoria e totalmente asserviti ai piani di rilancio economico e di riarmo (ciò comportò la netta riduzione del tasso di disoccupazione e produsse un effetto di tolleranza da parte del proletariato nei riguardi del regime; il nazionalsocialismo ripristinò la medievale ereditarietà delle professioni, e inventò anche un servizio civile per i giovani di entrambi i sessi, un anno di lavoro obbligatorio che servì d’altro canto a livellare le differenze sociali e che gli attirò un’ulteriore acquiescenza); prima della dittatura la sinistra del partito che portava avanti punti programmatici socialisti intercettò e convogliò il malcontento delle masse (nel 1934 i rivoluzionari nazisti furono eliminati fisicamente: Hitler preferì l’intesa interna col capitale e con l’esercito in cambio della presidenza della repubblica, che così si univa in lui al rango di capo del governo). Il socialismo del nazionalsocialismo esistette come lettera morta solo sulla carta. Nel 1933-45 i Tedeschi furono privati dei diritti più elementari in una normale democrazia. Tutto (informazione, educazione, gestione dell’economia, governo della cosa pubblica, etc.) era in mano ai nazisti: l’amministrazione della giustizia e le forze dell’ordine divennero lo strumento del controllo sociale e della soppressione degli oppositori. A questa azione repressiva si aggiungeva la produzione del consenso e dell’indottrinamento condotta attraverso istituzioni di partito e pubbliche. Tutti, a seconda dei casi, erano inquadrati nel sistema nazificato, non vi era spazio per il dissenso. Le cosiddette leggi di Norimberga (1935) diedero primo corpo al programma antisemita: gli Ebrei tedeschi furono emarginati dalla società al pari degli Iloti sotto gli Spartani, e l’intera Germania sembrò somigliare moltissimo all’antica Sparta. L’irrazionale concetto della superiorità razziale ariana (e in particolare dei nordici germanici) spinse barbaramente i nazisti durante il secondo conflitto mondiale all’uccisione nei campi di concentramento di sei milioni di Ebrei. Nessuna forma di pensiero poteva e potrà mai giustificare una tale azione immotivata di odio e di morte che resta durevole nella storia a severissimo monito con la sua condanna irrevocabile verso i responsabili. Il nazionalsocialismo ebbe i suoi cardini nell’idea di una grande Germania (che si espandesse nell’est europeo) e in questo sentimento di antisemitismo. La sinistra del partito non ebbe mai vita facile e finì con lo scomparire negli anni di governo. Per una serie di motivazioni, sotto il profilo delle idee, non è corretto accostare il fascismo italiano al nazismo nel cosiddetto nazifascismo, un ibrido che non può facilmente assurgere a categoria politico-filosofica, mentre è più giusto parlare di alleanza politico-militare tra Italia e Germania. È vero che in Italia furono emanate – con l’approvazione del re Vittorio Emanuele III – nel 1938 leggi razziali, ma furono lo sciagurato e profondamente ingiustificato frutto di un innaturale allineamento dell’ideologia fascista. Il fascismo ebbe in sé dannosi diversi difetti, tuttavia l’antisemitismo come connotato ideologico lo prese dal nazismo (compiendo uno dei più tragici e significativi suoi errori) e non da una sua corrente interna preponderante. Il che non lo solleva da colpe, però chiarisce la dinamica della storia. Il fascismo coltivava il suo socialismo spiritualista, e si scontrò col capitalismo italiano (le vicende della Repubblica sociale italiana lo dimostrarono), le sue leggi razziali non avevano l’intensità di quelle tedesche, e inoltre nonostante gli altalenanti rapporti con la Chiesa cattolica (che va detto soddisfece in parecchio: dai Patti lateranensi alla concessione di alcuni privilegi) mai progettò invece come il nazismo di ritornare al paganesimo (nel 1933 la Santa sede e il governo di Hitler avevano stipulato un concordato). Il legame tra Italia fascista e Germania nazista nacque in un contesto di politica estera. Dopo la conquista italiana dell’Abissinia nella seconda guerra d’Etiopia (1935-36) Inghilterra e Francia, precedenti alleate nella Grande guerra, si erano schierate contro l’Italia, la Germania no. Hitler era ammiratore di Mussolini (il contrario non era vero) e fece in modo di avvicinarglisi: la strada della distruzione era spianata perché il fascismo per non restare isolato all’estero si legò malauguratamente ai nazisti. In Germania i campi di concentramento per gli oppositori esistevano già prima del secondo conflitto mondiale, in Italia c’era il confino che, seppur parimenti inaccettabile, era molto diverso. L’amicizia tedesca provocò l’involuzione del fascismo, la sua entrata in guerra contro le potenze democratiche occidentali (da cui si era allontanato definitivamente) e la mancata possibile sua futura e incruenta evoluzione verso la democrazia (similmente al franchismo). L’opera socio-politica fascista del periodo prebellico – sempre non dimenticando che era una dittatura antidemocratica – non è paragonabile nello spirito alla difesa degli interessi del capitale praticata dai nazisti né alla completa e radicale restrizione delle libertà attuata da questi ultimi e altrove da regimi dittatoriali comunisti o conservatori: in Italia c’erano la Chiesa e la monarchia sabauda che mantenevano propri spazi d’azione. Sul fascismo pesano le vittime e le rovine dell’ultima guerra e lo sviamento nazista con l’Olocausto in modo incancellabile, unitamente alla sua originaria vocazione antidemocratica e all’uso della violenza interna nel suo primo frangente: queste sono le maggiori affinità con il nazionalsocialismo rispetto a cui ebbe genesi e vita diverse fino al connubio (Mussolini guidava il governo italiano già dalla fine del 1922 e manifestò l’intenzione di allearsi con i Tedeschi solo dopo la svolta della metà degli anni ’30). L’intellettuale italiano genuinamente più incline al razzismo, il filosofo Julius Evola, paradossalmente fu mal visto dai nazisti a causa di divergenze d’impostazione teorica e tenuto ai margini dai fascisti che gli preferivano il neohegeliano Giovanni Gentile. Nella seconda metà del Novecento, sebbene la memoria della Shoah fosse viva e presente come oggi ma più vicina agli eventi, gli Occidentali mantennero mentalità discriminatorie verso i rappresentanti di altre etnie e specialmente nei confronti dei neri. I casi degli USA e del Sudafrica sono tra quelli emblematici: in Sudafrica i bianchi instaurarono un governo segregazionista, durato dal 1948 al 1990, non dissimile da quello nazista, e negli Stati Uniti il Ku Klux Klan e gli assassini di leaders neri sono storia ancora recente.



DAI PUNTI DEL PROGRAMMA DEL PARTITO NAZIONALSOCIALISTA (1920)

1 - Noi chiediamo la costituzione di una Grande Germania che riunisca tutti i Tedeschi, sulla base del diritto all’autodeterminazione dei popoli.
3 - Noi chiediamo terra e colonie per nutrire il nostro popolo e per collocare l’eccesso di popolazione.
4 - Cittadino può essere soltanto chi è connazionale. Può essere connazionale solo chi è di sangue tedesco, senza riguardo alla confessione religiosa. Nessun Ebreo può quindi essere connazionale.
5 - Chi non è cittadino può vivere in Germania solo come ospite e deve sottostare alla legislazione per gli stranieri.
6 - Il diritto di determinare l’orientamento e le leggi dello Stato è riservato ai soli cittadini. […]
7 - Noi chiediamo che lo Stato si impegni ad assicurare a tutti i cittadini i mezzi per vivere. Se questo paese non può garantire il sostentamento a tutta la popolazione, chi non è cittadino dovrà essere espulso dal Reich.
8 - Bisogna impedire ogni nuova immigrazione di non Tedeschi. […]
10 - Primo dovere di ogni cittadino è il lavoro, fisico o intellettuale. L’attività del singolo non deve nuocere agli interessi della collettività, ma inserirsi nel quadro di questa e per il bene comune. Per questo noi chiediamo:
11 - La soppressione del reddito di chi non lavora e non fatica, la soppressione della schiavitù dell’interesse.
13 - Noi chiediamo la nazionalizzazione di tutti i gruppi esistenti d’imprese che esercitano un monopolio.
14 - Una partecipazione agli utili nelle grandi imprese.
16 - Noi chiediamo la creazione e la protezione di un sano ceto medio, che i grandi magazzini vengano immediatamente affidati alle amministrazioni comunali e che siano affittati a poco prezzo ai piccoli commercianti. La priorità deve essere accordata ai piccoli commercianti e industriali per tutte le forniture allo Stato, alle regioni o ai comuni.
17 - Noi chiediamo una riforma agraria adatta ai nostri bisogni nazionali, la promulgazione di una Legge che permetta l’esproprio, senza indennizzo, del suolo per fini di utilità pubblica, la soppressione dell’interesse fondiario e il blocco di ogni speculazione fondiaria.
18 - Noi chiediamo una lotta senza tregua contro coloro che con la loro attività nocciono all’interesse pubblico. […]
19 - Noi chiediamo che un diritto comune tedesco sostituisca il diritto romano che è al servizio dell’ordinamento materialistico del mondo.
20 - L’estensione del nostro sistema scolastico deve permettere a tutti i Tedeschi dotati e attivi di accedere a una educazione superiore e con questa a posti direttivi. […] Lo spirito nazionale deve essere inculcato nella scuola fin dall’età della ragione. […]
21 - Lo Stato deve provvedere a migliorare la salute pubblica, proteggendo la madre e il fanciullo, proibendo il lavoro dei fanciulli, introducendo mezzi atti a sviluppare le attitudini fisiche mediante l’obbligo di praticare lo sport e la ginnastica e mediante un forte sostegno a tutte le associazioni che si occupano dell’educazione fisica della gioventù.
23 - Noi chiediamo la lotta legale contro la menzogna politica cosciente e la sua diffusione a mezzo della stampa. […]
I giornali che contrastano con l’interesse pubblico devono essere vietati. Noi chiediamo che la legge combatta l’insegnamento letterario e artistico che esercita un’influenza disgregatrice sulla nostra vita nazionale, e la soppressione delle organizzazioni che contravvengono alle disposizioni sopra esposte.
24 - Noi chiediamo la libertà nell’ambito dello Stato per tutte le confessioni religiose, nella misura in cui esse non mettano in pericolo la sua esistenza o non offendano il sentimento morale della razza germanica. Il partito, come tale, difende la concezione di un Cristianesimo positivo, ma non si lega a una confessione specifica. Esso combatte lo spirito giudaico-materialista all’interno e all’esterno ed è convinto che un risanamento duraturo del nostro popolo non può avvenire che dall’interno, sulla base del principio: l’interesse generale prevale su quello particolare.
25 - Per realizzare tutto questo, noi chiediamo la creazione di un potere centrale forte, l’autorità assoluta del comitato politico su tutto il Reich e sui suoi organismi e inoltre la creazione di camere professionali e di uffici municipali incaricati di attuare nei vari Laender le leggi generali promulgate dal Reich. […]

LA MARCIA VERDE

di DANILO CARUSO

Quando le dominazioni coloniali avevano ceduto spazio all’esistenza di Stati liberi, gruppi di civili marocchini disarmati, di varia estrazione, cui erano state fornite copie del Corano, bandiere islamiche e immagini del proprio sovrano, attraversarono il 6 novembre 1975 la frontiera nel deserto col Sahara spagnolo per incalzare il governo madrileno a ritirarsi: la cosiddetta “marcia verde” (in codice operazione “Fatḥ”: “conquista” in arabo) fu tra le mosse culminanti nei piani di annessione del re del Marocco Hassan II (1929-1999).
Sul trono dal 1961, fu un suo obiettivo quello di riunire le tribù sahrāwī sotto la monarchia alawita. Gli eventi che contrassegnarono l’evolversi di questa mira furono articolati. Nel dicembre del ’65 la Spagna franchista fu sollecitata dall’ONU ad abbandonare la colonia, ed esattamente un anno dopo le Nazioni Unite stabilirono che quelle genti potessero decidere il loro futuro tramite una scelta referendaria. Le miniere di fosfati nell’area settentrionale avevano fatto sorgere a Madrid il desiderio di un separato piccolo stato fantoccio. Lo scacchiere di quest’area sahariana occidentale contemplava in aggiunta al Marocco (in quei decenni di “guerra fredda” vicino agli USA) altri contendenti: la Mauritania e la filosovietica Algeria che ambiva, tra l’altro, a uno sbocco atlantico (dalla redditizia pesca costiera). Era viva la preoccupazione negli Stati Uniti di un’ingerenza nordafricana dell’URSS. Nel maggio del ’73, dai resti di una precedente organizzazione indipendentista (sorta nel ’67), fu formato il Fronte popolare di liberazione di Saguia el Hamra e Rio de Oro (POLISARIO), e nell’agosto del ’74 gli Spagnoli resero noto che si sarebbero ritirati dal suolo sahariano, offrendo la disponibilità a dar luogo al referendum auspicato dall’ONU anni prima (a CIA e Nazioni Unite sembrava desse probabilmente vita a uno Stato indipendente). Il monarca marocchino, paventando che la situazione gli sfuggisse di mano, protestò affinché in questa consultazione non fosse concessa l’opzione dell’indipendenza. E nel mese successivo si rivolse alla Corte internazionale di giustizia de L’Aia, che a ottobre del ’75 emise un responso conveniente alle sue aspettative: ribadendo l’opportunità di un atto di autodeterminazione dei residenti nella regione, dichiarava che i Sahrāwī presentavano i rivendicati caratteri di omogeneità col popolo marocchino. Gli Algerini – come sempre – sostennero che la migliore soluzione era lo svolgimento di un plebiscito. In Spagna lo stato di salute del dittatore Francisco Franco e la sua imminente morte (20 nov. 1975) giocarono a favore del Marocco: il futuro re Juan Carlos era propenso all’entrata iberica nella NATO (rinunciando a un collocamento internazionale nella “terza posizione”), da propiziare grazie all’immediato disimpegno sahariano (tendenza coloniale già maturata dal caudillo). In precedenza il governo americano era stato criticato da quello franchista perché assecondava gli amici marocchini (i rapporti tra CIA e ventura casa regnante alawita risalivano allo sbarco degli Americani a Casablanca nel nel’42 durante la seconda guerra mondiale). L’intenzione di mettere piede nel Sahara spagnolo era stata ufficializzata da un messaggio di Hassan II alle 18:30 del 16 ottobre 1975, giorno stesso in cui poche ore dopo la Corte de L’Aia aveva espresso un punto di vista utile alle sue ambizioni. Da quella giornata era incominciata la mobilitazione pubblica a sostegno dell’iniziativa, cosicché già una settimana più tardi un embrionale nucleo di volontari si radunava a Tarfaya: in realtà la pianificazione segreta di tutte le manovre era stata avviata il 26 settembre con il coinvolgimento di 700 agenti. Il 31 ottobre, a sei giorni dalla “marcia verde (colore simbolico dell’Islam)”, reparti dell’esercito di Rabat, affrontando qualche isolata opposizione degli uomini del POLISARIO, avevano occupato alcuni settori di controllo a sud al di là del confine sahariano per impedire un eventuale ingresso militare algerino nelle “terre irredente” dal Mesamir. L’intervento dell’ONU – il cui orientamento era de facto filoalgerino – richiesto dalla Spagna non riuscì a dissuadere in quelle settimane il re alawita. All’inizio dell’ottobre del ’75 la Cia aveva previsto un’aperta invasione armata entro il mese se le circostanze non avessero dato altra scelta ad Hassan II, fiducioso che la comunità internazionale avesse poi fatto il suo gioco; perciò gli Stati Uniti lo ammonirono a non compiere un atto bellico contro gli Spagnoli: rispose il 14 che la Spagna sarebbe rimasta fuori da eventuali ritorsioni a differenza di altri che avessero cercato di ostacolarlo. Tuttavia Madrid, preoccupata dell’insuccesso delle Nazioni Unite, e disponibile a un trasferimento della sovranità sahariana a condizione di annullare la “marcia verde”, venne a patti col Marocco: l’operazione “Fatḥ” si sarebbe completata; in seguito, attraverso l’egida del Palazzo di vetro di New York, gli Spagnoli avrebbero avuto un’uscita di scena senza disonore e un referendum ad hoc avrebbe sancito il nuovo possesso territoriale di Rabat (Juan Carlos fu a El Ayun, a pochi chilometri dal Marocco, il 2 novembre, nel periodo in cui il governo madrileno proclamava di voler fermare l’arrivo dei Marocchini). Un plebiscito pilotato era la proposta che Hassan II avrebbe accolto nel caso della prospettata e diretta amministrazione dell’ONU successivamente al ritiro iberico, una via che allora non gli fu garantita. E così all’alba del 6 novembre, ma solo in piccola parte, raggruppamenti dai circa 350.000 – numero simbolico della generazione di nati in quell’anno – marciatori concentrati a ridosso della frontiera sahariana (segnata dal parallelo a 27° 40' di latitudine nord) si inoltrarono da diversi punti nel territorio della colonia iberica per una quindicina di chilometri. Il 9 novembre questa pacifica avanzata, prontamente condannata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (cui fu impedito per il veto statunitense un pesante atto di sanzione caldeggiato da Madrid), fu revocata dal sovrano alawita, che si reputò soddisfatto. Il pericolo era che l’operazione degenerasse: temeva da un canto che l’Algeria rispondesse in armi, e dall’altro che lo schieramento dei soldati iberici, schermati da una barriera di mine piazzata a proposito, potesse causare vittime tra i volontari giunti molto vicini a questa linea di contenimento (i marciatori furono poi temporaneamente mantenuti distanti 10 chilometri a nord del confine per esercitare ulteriore pressione sulla Spagna). Il 10 dicembre una risoluzione dell’ONU rinnovò il diritto all’autodeterminazione dei Sahrāwī. Il 26 febbraio 1976 gli Spagnoli, passati per un intermezzo di gestione con Marocchini e Mauritani partito il 14 novembre 1975, conclusa l’operazione di evacuazione denominata “Rondine”, lasciarono definitivamente la colonia: il 27 febbraio venne quindi proclamata dagli indipendentisti la Repubblica democratica araba sahrawi (RASD), durata poco poiché a metà aprile in virtù dell’accordo marocchino-mauritano il Sahara ex iberico fu diviso tra i due stipulanti lasciando fuori l’Algeria. L’amarezza algerina davanti a questi avvenimenti fu considerevole (come il risentimento nei confronti degli USA): Algeri e Rabat ritirarono i rispettivi ambasciatori. L’intesa tra Spagna, Marocco e Mauritania (Madrid, 12-14 nov. 1975) aveva presunto un voto popolare, a cui l’ostile strategia del POLISARIO (di indirizzo socialista), rimasto in loco l’unico soggetto politico interlocutore, non diede margine di realizzazione (ci fu inoltre un’emorragia di profughi alla volta della limitrofa Tindouf in Algeria). Nel luglio del ’78 a causa della guerriglia del POLISARIO crollò in Mauritania sotto un colpo di Stato la presidenza di Moktar Ould Daddah (in carica dal 1960). La frazione mauritana di Sahara spagnolo fu lasciata libera undici mesi più in là: il quarto giorno dall’abbandono venne annessa da Rabat. Alla fine degli anni ’70 il POLISARIO (col sostegno di Algeri) stava per prendere il controllo dell’ex Sahara iberico, però i Marocchini – dopo essersi dichiarati nel 1981 ben disposti a un plebiscito per i Sahrāwī – per mezzo di aiuti americani, francesi e sauditi ripresero la supremazia, e al termine del 1984 si ritirarono dall’Organizzazione dell’unità africana che aveva associato la RASD. Una Missione delle Nazioni Unite per l’organizzazione di un referendum nel Sahara Occidentale (MINURSO), iniziata nel 1991 e più volte prorogata, cui ha partecipato anche l’Italia, a oggi ha ottenuto un nulla di fatto. Il nuovo re Mohammed VI, succeduto al padre Hassan II, ha ricostituito nel marzo del 2006 un decaduto hassaniano Consiglio reale consultivo per gli affari sahariani (CORCAS) allo scopo di migliorare l’integrazione.

mercoledì 24 luglio 2013

SANTA XENIA DI SAN PIETROBURGO

di DANILO CARUSO

Pochi anni prima della dissoluzione dell’URSS (avvenuta alla fine del 1991), il 6 febbraio – giorno in cui è commemorata – 1988 (24 gennaio per gli ortodossi) Xenia Grigorievna Petrova è stata canonizzata dal Patriarcato di Mosca. Nel corso dell’epoca comunista, nonostante i divieti di natura religiosa, e nonostante l’impossibilità di accedere alla sua cappella (addirittura circondata da una recinzione alta sui 3 metri), il notevole culto popolare della sua persona, ereditato dal passato, non subì flessioni (fiori e messaggi erano lasciati prima all’esterno della cappella chiusa, successivamente presso il recinto). La più dettagliata opera agiografica su di lei è quella di Dimitri Bulgakovskij, risalente al 1895. Nacque a San Pietroburgo all’interno di una famiglia proveniente dalla nobiltà russa verso il 1731. A 22 anni si unì in matrimonio a un colonnello, Andrea Fëdorovič Petrov, che era corista di corte. Quattro anni dopo perse il marito deceduto a causa di un abuso d’alcolici in modo istantaneo in occasione di una festa. La cosa turbò molto Xenia, rimasta vedova senza figli, poiché credeva che lo sposo, essendo morto in assenza di conforti spirituali, non avesse avuto diritto a una salvezza immediata dell’anima in paradiso. Così ella decise di intraprendere un cammino ascetico, in cui sostituendolo, riscattasse i peccati del coniuge (del quale per l’appunto assunse il nome e prese a indossarne la divisa: adduceva che a morire non era stato lui ma lei). Seguendo l’insegnamento evangelico si liberò di tutte le sue proprietà a favore dei più bisognosi (donò l’abitazione in cui risiedeva perché divenisse ricovero per poveri – era posta all'angolo tra viale Bolshoy e via Lakthinskaya – a un’amica che persuase poi a adottare in modo prodigioso un neonato senza genitori). Questa condotta fece ritenere ai familiari che fosse impazzita. Cercando dunque di farla dichiarare interdetta da un tribunale fu sottoposta ad accertamento sanitario: la sua presunta “follia” non era di carattere mentale (fu infatti giudicata in grado di ragionare perfettamente con libertà), ma spirituale. Esiste nella religiosità russa una categoria di asceti che se da un lato subì pure persecuzioni di polizia dall’altro riscosse la venerazione popolare: sono definiti pazzi per Cristo (espressione che trae origine dalla prima lettera neotestamentaria ai Corinzi, in cui la fede in Cristo è presentata come follia al giudizio di pagani e non cristiani). La radicalità della loro vita di rigore e povertà, che rappresentava una forma di condivisione delle sofferenze della Croce, li faceva considerare dei fenomeni di aberrazione naturale e sociale, cosa che se era mal vista dai ceti più agiati costituiva la loro forza di testimonianza del Vangelo di fronte ai diseredati, desiderosi di un riscatto. Il caso di Xenia, che attirò più tardi anche l’attenzione delle forze dell’ordine pietroburghesi, fu uno di questi. In principio, respinto pure il sostegno di congiunti e conoscenti, fu agli occhi dei più oggetto di dileggio. Faceva dono ulteriore agli indigenti delle offerte che aveva l’abitudine di prendere esclusivamente da chi le avesse porte amorevolmente. Allontanatasi da San Pietroburgo, per farvi ritorno all’età di circa 34 anni, girò alla ricerca di “consiglieri spirituali”: le agiografie riferiscono che il movente della sua conversione narratole dallo starets san Teodoro di Sanaxar (un ex ufficiale; 1719-1791), in cui si era imbattuta, la convincesse a far riferimento, dati i tratti di coincidenza, all’episodio di morte del marito. Persona di straordinaria pazienza, ebbe una particolare predilezione verso la campagna pietroburghese, che le offriva riparo di notte, e la cui natura a suo avviso l’avvicinava al divino. Viveva nella zona più misera di San Pietroburgo raminga e non curata (camminava scalza sulla neve), similmente ai più radicali antichi filosofi cinici (consumatasi l’uniforme del consorte la sostituì con brandelli di stoffa, di analoghi colori verde e rosso che la richiamassero). Coloro a cui mostrava benevolenza sembra venissero risollevati nella loro sorte, tant’è che cominciò a essere ricercata per questo suo carisma, al quale aggiungeva quello di preconizzare il futuro, che rendeva noto con formulazioni il cui senso letterale – da interpretare – rinviava a un significato profetico più profondo. Previde le morti della zarina Elisabetta (1709-1762), il giorno prima, e del prigioniero deposto zar Ivan VI (1740-1764), con tre settimane d’anticipo. A un’altra donna di nome Krapivina, sempre in maniera oscura, anticipò la sua prossima prematura scomparsa con l’affermazione che le ortiche – in russo ortica è krapiva – sarebbero appassite rapidamente. Nello stesso tono apparentemente incomprensibile dava indicazioni a compiere azioni che poi disvelavano avere un seguito positivo, come nel caso della ragazza che sposò il vedovo a cui la santa l’aveva indirizzata dicendole che il (futuro) marito di lei stava seppellendo la consorte (precedente). I concittadini credevano che calato il sole andasse a riposare nel vicino cimitero di Smolensk, dove si scoprì che durante l’edificazione della chiesa, nel 1794, ella agevolava nella nottata i lavori degli operai facendo trovare pronti i mattoni. Alla sua scomparsa, avvenuta intorno al 1803, fu sepolta in questo camposanto, luogo in cui una cappella fu completata nel 1902 sopra il suo sepolcro (molto frequentato da fedeli che solevano portarsi via un po’ di terra o di pietra dalla costruzione come reliquia). Diverse furono le testimonianze di sue apparizioni post mortem foriere di miracoli. La zarina Maria Fëdorovna (1847-1928) le impetrò la guarigione del marito zar Alessandro III (1845-1894): una loro figlia, della cui venuta al mondo era stata avvisata in sogno dalla santa, assieme al risanamento del consorte, fu perciò chiamata Xenia Aleksandrovna (1875-1960); dei Romanov questa fu una delle pochissime persone a scampare dallo sterminio bolscevico della famiglia. Oltre a essere inclusa nel novero dei patroni di San Pietroburgo – con l’altro ortodosso sant’Alexandr Nevskij e il cattolico san Giuda Taddeo – i patronati di questa “folle per amore di Cristo” coprono gli incendi, gli studenti, i disoccupati, i bimbi a disagio, gli errabondi e i coniugi (il racconto della sua vita vuole che ella abbia visto in vita un preannuncio della futura condizione paradisiaca propria e del defunto sposo). La cappella di santa Xenia, ritornata accessibile a tutti, è stata restaurata nel biennio 2001-2.

L’EREDITÀ DEL MARXISMO

di DANILO CARUSO

Il pensiero filosofico di Karl Marx, sviluppato nella speculazione politica a opera di Lenin (ne è nato il marxismo-leninismo), dall’Ottocento ha influenzato sotto molteplici aspetti le vicende storiche e i modi d’interpretare la società e la realtà intera. Va innanzitutto rilevato che le istanze da cui Marx partì erano valide: il disumano maltrattamento capitalistico della classe proletaria fu un fenomeno che non poteva rimanere sottaciuto dalla filosofia. La sua denunzia e la sua analisi – per vari tratti – non fanno una grinza nell’evidenziare quelle problematiche. Quello che la storia ha condannato è il sistema di rimedi teorici e pratici del comunismo. Voler ribaltare il sistema capitalista con il suo opposto significa sostituire un problema con un altro: da un eccesso in un verso si passa all’altro di segno opposto. E tutto ciò a scapito della libertà: niente proprietà privata (solo il “possesso” dell’essenziale), niente imprese (lo Stato si occupa di tutto). Se questo non è accettabile dalla ragione, lo è soprattutto in quell’ottica in cui Marx prevedeva che allo Stato socialista dovessero seguire la sua scomparsa e l’instaurazione di un’anarchica comunanza universale (stadio evolutivo – detto “comunismo” – mai realizzatosi, in cui la famiglia non sarebbe esistita e le donne sarebbero state in comune). È inoltre contraddittorio che Lenin avesse riservato la guida del suddetto rovesciamento sociale a un’elite di borghesi illuminati, ed è per niente lecito che questo sia di natura dichiaratamente violenta. La dittatura del proletariato nelle mani di chi proletario non è non ha molto senso: il proletariato sarebbe interpretato in rapporto a una dottrina, ma non sarebbe libero di esprimersi (del resto si troverebbe sotto una dittatura). «TUTTI GLI ANIMALI SONO UGUALI / MA ALCUNI SONO PIÙ UGUALI DI ALTRI», così nelle ultime pagine de “La fattoria degli animali (1945)” di George Orwell una norma esprime il punto di arrivo di quell’allegorica società innovatrice, specchio del comunismo sovietico. Il diritto di natura non gradisce un modello statale del genere perché è innaturale privare gli uomini senza una giusta motivazione delle personali libertà e perché questo Stato nascerebbe su radici inadeguate (gli uomini si consorziano in modo incruento e spontaneo in vista di un fine di equilibrato benessere collettivo). In ambito socialista, nonostante l’ateismo e l’anticlericalismo, è migliore il pensiero di Robert Owen fautore nell’Ottocento di cambiamenti nelle condizioni dei lavoratori e non di sanguinosi rivolgimenti (poi nel 1917 i comunisti in Russia andarono al potere attraverso un colpo di Stato e non per mezzo di una propria rivoluzione). Al congresso dei laburisti inglesi del 1923 l’economista Sidney James Webb sottolineò che «il fondatore del socialismo inglese non è stato Karl Marx, ma Robert Owen e che Robert Owen non predicava la lotta di classe, ma la dottrina della fratellanza umana». Per quanto la parte schiettamente politica del marxismo-leninismo sia di tipo totalitaristico e prescrittivo (pensiamo al materialismo e all’ateismo di Stato che sposa) d’altro lato nel settore dell’analisi della condizione lavorativa – come nelle considerazioni sociologiche sulla strumentalizzazione della credulità religiosa popolare – Karl Marx è stato più condivisibile. La dottrina del plusvalore non ha perso efficacia, benché questa sia stata elaborata in vista dell’unica circostanza di successo dell’impresa: Marx non ha tenuto conto del rischio d’impresa da parte dell’imprenditore e del fatto che se costui fosse fallito i suoi dipendenti avrebbero perso il posto di lavoro. È vero che un datore di lavoro dei suoi tempi pagando a un prestatore d’opera la sua semplice stentata sopravvivenza grazie al resto del guadagno si poteva arricchire: questa differenza è il plusvalore a cui il lavoratore concorreva in maniera inconsapevole a causa di un’alienazione soggettiva del proprio operato la quale lo poneva al di fuori della coscienza produttiva. La situazione ai nostri giorni è del tutto cambiata nei Paesi moderni: ci sono gli assegni familiari e i versamenti dei contributi pensionistici assieme a salari onesti equilibranti quel plusvalore incamerato dall’imprenditore. Anche in relazione a questo tema, eccezion fatta davanti allo sfruttamento di manodopera nei Paesi poveri, arretrati e sottosviluppati, il marxismo è perlopiù parziale perché i tempi sono mutati. Risulta pure poco facile comprendere coloro che, di sinistra marxista, sono contrari alla globalizzazione e non attuano un approccio diverso a essa: per Marx questa sarebbe stata il preludio della rivoluzione universale dei lavoratori. Il problema non è la globalizzazione in sé, è rappresentato invece da quei casi in cui il plusvalore di cui parlava è un abuso ancora reale (un suo discutibile giudizio definisce «immondizia dei popoli» tutti quelli che non hanno raggiunto uno stadio capitalistico, ritenuti quindi da eliminare a vantaggio degli altri). La Chiesa cattolica ha prestato attenzione – con iniziale ritardo sui tempi – all’incidenza dei cambiamenti economici sulla società, basti ricordare le encicliche sociali, mantenendo una posizione di equilibrio tra le due formule del capitalismo e del socialismo, equilibrio che media le esigenze di libera iniziativa e di solidarietà comune (san Francesco d’Assisi ricordò col caritatevole esempio la funzione naturale della proprietà privata come strumento di sostegno al benessere comune, fino al punto di rinunciarvi allorquando questa rinnega il progetto di cui Dio ha reso l’uomo artefice e diviene fonte di smisurato arricchimento di pochi). È lontana ormai l’epoca dello scontro fra cattolici e comunisti, la “guerra fredda” è finita e l’URSS è caduta da sola per motivi endogeni fra molte contraddizioni. Tra queste: i nazisti presero a modello attuando le loro persecuzioni, l’allestimento di campi di concentramento e l’addestramento di reparti l’Unione Sovietica di Stalin; il singolo sterminio comunista degli Ucraini (“holodomor”, che vuol dire genocidio: 7 milioni di morti causati da inedia nella prima metà degli anni ’30) supera nel numero la barbarie della Shoah; i Sovietici instaurarono un rapporto di collaborazione coi Tedeschi durato sino al giugno 1941 che contemplò coi futuri nemici la spartizione della Polonia, l’occupazione da parte di Mosca di Lituania, Lettonia, Estonia e di territori finlandesi e romeni, e per di più la riconsegna di Ebrei profughi ai nazisti e la fornitura a questi di aiuti militari e alimentari. Oggi sono sopravvissuti i partiti politici che si richiamano a Marx: una parte di essi ha abbandonato il programma rivoluzionario e mantenuto l’ideologia di giustizia sociale. Il comunismo nel ’900 ha però provocato circa 100 milioni di morti a livello mondiale laddove ha operato: il suo schema politico totalitario, fondato sul materialismo (“storico” – in base a cui le vicende umane sarebbero lotta di classe –  e “dialettico”), non è storicamente riproponibile (Antonio Gramsci introdusse nel contesto della riflessione marxista un’alternativa – dal carattere spiritualista – all’idea di storia come lotta di classe, secondo la quale sarebbe invece dialettica di ideologie). Si deve far tesoro di quest’esperienza (perché non si ripeta, custodendo i positivi aspetti delle analisi marxiane) poiché malgrado le soluzioni proposte fossero peggiori dei problemi su cui intervenire questi stessi non furono un’invenzione del marxismo.

LA RAPPRESENTANZA ORGANICA

di DANILO CARUSO

Il criterio della rappresentanza parlamentare corporativa (cioè per sezioni della società) fu uno dei cavalli di battaglia del vecchio Movimento sociale italiano, un modello che era stato ereditato dalla parte concettualmente salvabile dell’ideologia fascista. Sebbene il corporativismo si porti appresso la tara del fascismo non fu questo a introdurlo nella storia delle idee: il primo corporativista è stato Platone. Nella “Repubblica” la tripartizione del popolo in governanti – difensori – produttori risponde all’esigenza di porre ogni essere umano in virtù delle sue capacità, e non in seguito a privilegi di nascita o di raccomandazione, nella categoria migliore corrispondente alle sue attitudini e agli interessi collettivi. A Platone era ancora estraneo il concetto di persona, ragione per la quale la sua concezione di Stato (etico) è involontariamente molto simile a quella gentiliano-fascista (il cittadino in funzione dello Stato). Il filosofo ateniese venne inserito nella critica dei sistemi totalitari condotta da Karl Popper (da ricordare che Platone legittimava anche la schiavitù – difetto comune a tutta l’antichità –, i  cui rappresentanti erano in fin dei conti una quarta categoria di servi). Questa idea di dare a ognuno il ruolo giusto ricomparirà nella teoria attrattiva del lavoro di Charles Fourier. I limiti della “Repubblica” platonica, che prospettava pure programmi eugenetici di ascendenza spartana, ma che a posteriori rievocano molto quelli nazisti, sono da collocare e conoscere nella loro dimensione storica (sempre non condividendoli). Non perché il corporativismo è stato riproposto e riattualizzato dal fascismo dovrebbe essere oggetto di abominio: preso per sé è un’ipotesi di rappresentanza con una sua dignità. L’opportunità di un’assemblea legislativa corporativa può essere giudicata diversamente se ripresentata correttamente. Ai tempi del fascismo, prima dell’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, l’esistenza del partito unico e della lista bloccata di tutti i deputati (sottoposta a referendum) era stata accompagnata dal calo (di circa 1/5) dell’elettorato. Se il liberalismo inglese sosteneva no taxation without representation (nessuna imposizione di tasse a coloro che non godono del diritto di voto, per cui ci sia il suffragio popolare), il fascismo invertì i termini, pur rimanendo sulla stessa linea concettuale: no representation without taxation (nessuna facoltà di voto a chi ha redditi più bassi e che non contribuisce al bilancio pubblico significativamente). Questa procedura fascista riflette in qualche modo il pensiero di John Stuart Mill di rendere lecita singolarmente la formulazione di più voti ai cittadini capaci di valutare le scelte politiche: il fascismo intervenne per difetto. Mantenne il meccanismo di un voto pro capite, però così facendo lo tolse a coloro strumentalizzabili più vicini disgraziatamente a carenze di acculturazione (il Senato rimaneva di nomina regia, mentre venne ridotto il numero dei deputati allora non stipendiati). Ancor prima, alla fine del ’25, unicamente per le elezioni amministrative, era stato introdotto il suffragio femminile che durò sino all’abolizione dei consigli elettivi (10 mesi per le comunali, 32 per le provinciali). Tutto ciò è modernamente inaccettabile e contraddittorio, qualunque siano le sue derivazioni prossime o lontane: la sovranità risiede nel popolo indistintamente nei suoi cittadini di ambo i sessi che abbiano compiuto la maggiore età, lo Stato deve garantire a tutti l’informazione e l’istruzione adatte a poter esprimere delle decisioni mature nelle libere e plurali consultazioni elettorali. Una democrazia esclusivamente corporativa è da respingere poiché esclude il ruolo dei partiti politici come mediatori ideologici e strumenti del pluralismo, e la dialettica si sposta a un piano sconosciuto. Uno schema misto bicamerale (la normale camera dei partiti e la camera delle corporazioni, con specificazione delle rispettive attribuzioni) sarebbe per la proposta corporativista soluzione migliore e più equilibrata. Oggigiorno, con compiti consultivi e progettuali, presso gli enti locali esistono particolari consulte e consigli vari che non sono nient’altro che organi corporativi. Dare a una camera delle corporazioni la possibilità di approvare in prima lettura i suoi disegni di legge, che necessiterebbero di un successivo passaggio alla camera dei deputati (per il dibattito, eventuali emendamenti, il giudizio finale), non equivale a menomare o impedire la democrazia. Un problema è stabilire i parlamentari corporativi: chi, quanti, come e perché. Per quest’ultimo nodo che si lega all’arbitrio di veduta appare preferibile che siano i partiti stessi, nella democrazia classica, a dar spazio al proprio interno e nelle candidature a rappresentanti delle varie categorie sociali e sindacali in modo più concreto e proficuo di quanto accada. Tuttavia i settori più generali della società sembrano essere questi: 1) casalinghe, 2) studenti, 3) disoccupati, 4) pensionati, 5) lavoratori e datori di lavoro, 6) operatori di culto. Il numero di seggi nella loro camera potrebbe essere per ciascuno nel complesso proporzionale a quello degli iscritti (ogni cittadino verrebbe inserito nella corporazione della sua posizione attuale principale), il tutto dovrebbe essere aggiornato in vista del rinnovo. Tutte le organizzazioni che abbiano avuto riconoscimento pubblico in relazione a una corporazione (o le loro aggregazioni) potrebbero concorrere alla sua rappresentanza. Ogni iscritto sarebbe chiamato a votare. La cornice statale di un simile esperimento non dovrebbe naturalmente essere a imitazione del modello hegeliano-fascista: ci vorrebbe comunque uno Stato etico, ma di una eticità diversa, in funzione del cittadino; dunque uno Stato laico, garante di libertà e di giustizia sociale, al servizio della persona e della collettività a protezione dei quali esiste (e non viceversa). Occorre dire per correttezza storiografica che il governo fascista accanto ai suoi gravissimi limiti storici e ideologici da condannare – una gamma che va dall’uso della violenza e dai dichiarati propositi antidemocratici all’adesione all’antiebraismo e alle imprese militari – si sforzò in campo nazionale e coloniale di migliorare le condizioni di vita materiale e di combattere le sperequazioni prodotte dal capitalismo (con varie opere pubbliche; istituzioni per l’assistenza sociale e il sostegno all’economia: IRI, IMI, INPS, INAIL, etc.; provvedimenti normativi: leggi sull’orario di lavoro ridotto a 8 ore quotidiane e a 40 settimanali con la domenica e un altro giorno di pausa, esenzioni tributarie alle famiglie numerose, assicurazione contro la disoccupazione, etc.) raggiungendo dei risultati i quali meritano studio formale più attento che iniziale riprovazione d’insieme. Quale tipo di funzionamento e di suddivisione possa avere nel suo seno la Camera delle corporazioni è difficile stabilirlo per il fatto che questi parlamentari non proverrebbero da partiti: i rischi sono quelli del radicalismo delle provenienze settoriali, che impedirebbe un produttivo svolgimento dei lavori, e di una frammentazione dell’azione propositiva e costruttiva, con risultanti confusione e improduttività. Tutti i possibili inconvenienti sollecitano un ripensamento del progetto di un’assemblea legislativa di natura corporativa, e suggeriscono di mantenere l’ambito di semplici e specifici organi rappresentativi al livello degli enti locali e il loro ruolo a quello consultivo-propositivo.