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mercoledì 24 luglio 2013

GIULIO CESARE

IL POLITICO, IL GENERALE, LO SCRITTORE 

di DANILO CARUSO
 
L’allargamento del campo geografico d’influenza della civiltà greco-romana merita a Gaio Giulio Cesare il riconoscimento di un contributo basilare alla crescita di un’omogenea idea d’Europa. La poliedrica valenza della sua personalità lo ha reso un personaggio autorevole nel retaggio dell’antichità. Nacque a Roma il 13 luglio di un anno tra il 102 e il 100 a.C. (le date seguenti sono a.C.): proveniva dalla patrizia gens Iulia, indebolitasi economicamente, che si proclamava discendente dell’eneide Iulo (Ascanio). A 16 anni gli morì l’omonimo padre. Ricevette un’iniziale istruzione dalla madre, l’aristocratica Aurelia Cotta, ebbe poi maestro un noto grammatico di origine gallica. Nipote di Gaio Mario (che ne aveva sposato una zia paterna) e cugino di Mario (l’antagonista di Silla), scelse di parteggiare in favore dello schieramento politico dei populares (opposto a quello oligarchico degli optimates). La prima moglie, Cornelia Minore sposata a 17 anni, era figlia del democratico Cinna (collaboratore di Mario), il che gli procurò seri problemi (rischiò di essere ammazzato durante le proscrizioni sillane): si sposò tre volte (morta Cornelia di parto nel 68, nel 62 ripudiò la seconda moglie, Pompea, una nipote di Silla, a causa di manifesto tradimento). Allontanatosi dalla capitale per sicurezza, precedentemente alla fine del regime sillano (avvenuta nel 78), fu militare in Asia Minore. Ritornato, il processo con l’imputazione di concussione a Gaio Cornelio Dolabella, un ex console sostenitore di Silla, andato assolto senza far chiarezza, di cui egli fu avvocato accusatore, lo mise in risalto sullo scenario forense. Perfezionò il percorso di formazione culturale nel 74 a Rodi (ebbe in comune con Cicerone il maestro Apollonio Molone): all’andata rapito dai pirati, e rilasciato dopo il riscatto, si adoperò per catturare – in modo sarcastico glielo aveva promesso – e uccidere i suoi sequestratori. Nel 73, assoldate delle milizie, s’impegnò a sostenere la guerra contro Mitridate VI re del Ponto. Fece dunque ritorno a Roma. Di eloquio attico (fu autore di un trattato sull’uso della lingua nel 54), bloccato il colpo di Stato del 63, in senato a differenza di Catone si espresse a sfavore della condanna capitale dei catilinari superstiti: sembra che assieme a Marco Licinio Crasso, che gli prestava i soldi necessari a sovvenzionare le proprie campagne politiche, fosse stato vicino a quel progetto che coinvolgeva le classi deboli (patrizi caduti in disgrazia, reduci di guerra, proletariato). Aveva continuato il suo cursus honorum, dopo alcune esperienze, anteriormente come questore nel 69 e edile curule nel 65, fu pontefice massimo nel 63 (designato corrompendo gli elettori), quindi pretore nel 62 e propretore in Spagna nel 61. Emerse nel tempo in cui il post-sillano Gneo Pompeo rinsaldava e allargava il dominio romano nel Mediterraneo orientale e in Asia Minore (67-62). In questo periodo gli introiti annui statali risultavano quintuplicati rispetto al secolo passato, però bastavano a coprire solo metà della spesa pubblica (il resto di copertura proveniva da proventi di guerra). Quando il senato, che temeva le conseguenze dell’accresciuta forza clientelare di Pompeo, non acconsentì alle sue richieste sull’approvazione dell’assetto politico dato in Oriente e sui premi di guerra ai suoi militari, costui strinse nel 60 un accordo di natura privata con Cesare e Crasso (primo triumvirato): a Crasso spettò una competenza in Asia Minore e a Cesare toccò il consolato nel 59 e il governo quinquennale (più avanti prorogato) delle province galliche. Quest’ultimo da console ratificò le richieste pompeiane, assegnando ai suoi veterani terreni demaniali (e togliendoli alla speculazione oligarchica), e in favore di Crasso attuò la riduzione del costo delle concessioni sul recupero delle imposte; dispose inoltre che gli atti delle attività in senato fossero pubblici. Da proconsole nelle Gallie Cisalpina e Narbonese (58-50) sottomise l’intera regione barbara. I suoi Commentarii de bello gallico sono dedicati a questa conquista (58-52): sette libri, redatti forse nel 52-51, cui se ne aggiunse un altro di un suo sostituto, Aulo Irzio, che narra gli eventi del 51-50. Dall’iniziale proposito difensivo di fronte alle pressioni di Elvezi e Svevi, la campagna militare si tramutò in offensiva (senza la necessaria approvazione del senato): risalito dal Rodano verso il Reno, occupò la Gallia Belgica e in seguito, girando lungo la fascia dalla Senna alla Loira alla Garenna, l’intero territorio celtico. Dopo aver posto fine all’insurrezione dei Treviri e degli Eburoni (54-53), con la sconfitta dei rivoltosi Arverni e la cattura del loro re Vergingetorige (51) – superato il reciproco assedio di Alesia – terminarono le operazioni. La Gallia, acquisita all’ordine sociale romano, meno iniquo di quello barbaro, rappresentava un’ottima base di potere grazie alle sue ricchezze umane e materiali. Nel corso della sua esperienza gallica Cesare si era spinto sino in Britannia (55 e 56) e al di là del Reno. Nel frattempo un nuovo accordo triumvirale a Lucca nel 56 aveva prorogato il suo proconsolato di un altro quinquennio, e a Pompeo e Crasso erano andati il consolato per il 55 e poi rispettivamente i proconsolati di Spagna e Siria: Crasso sarà ucciso dai Parti in battaglia nel 53 a Carre (Haran) mentre cercava di raggiungere successi militari pari a quelli cesariani e pompeiani. Al termine del comando in Gallia, tramontata l’aspettativa di raggiungere in maniera pacifica il consolato per il 48 – cosa che in precedenza era stata convenuta con Pompeo tramite una norma ad hoc –, Cesare avrebbe dovuto rimettere i suoi incarichi, ma dato che in opposizione al parere del senato gli fu negato che Pompeo – illegalmente consul sine collega nel 52 a seguito dell’omicidio del tribuno filocesariano Clodio (tuttavia col consenso di Cesare disapprovante l’estremismo democratico) – facesse lo stesso, il 10 gennaio del 49 decise di rompere gli indugi davanti all’alleanza pompeiano-senatoria e calò in armi nella penisola italiana dove era proibito a un magistrato in carica avere un comando militare. Al passaggio del Rubicone, che segnava il confine provinciale, (forse in realtà in lingua greca) esclamò: «Alea iacta est!». La visione politica cesariana contemplava la soppressione delle sacche di privilegio nel sistema romano incentrato sull’oligarchia senatoria di origine italica, che teneva in proprio potere lo Stato, non sovvertendo d’altro canto alla radice l’ordine costituito: occorreva dare spazio di rappresentanza a ogni classe sociale e ai popoli dell’impero in base a un criterio di migliore equilibrio. Il suo feeling con i propri soldati fu fondamentale per la sua azione militare e politica poiché era considerato un generale e un leader obiettivo e orientato a incoraggiare la partecipazione della plebe attraverso un ruolo attivo dei tribuni. Gli altri suoi Commentarii de bello civili, la cui redazione potrebbe risalire al 45, sono dedicati al conflitto (49-48) con il senato e Pompeo (al quale aveva dato antecedentemente in moglie la figlia Giulia nel 60, morta nel 54): altre opere di completamento storico-narrativo sono di autore ignoto. Pompeo, che contava sulle sue clientele spagnole e orientali, lasciò Roma accompagnato da quasi tutti i senatori, in gran parte maldisposti verso questa strategia, e riparò in Grecia a pianificare la reazione. In quei mesi Cesare s’insediò nell’Urbe e batté i pompeiani in Spagna (ne acquisì le legioni con la garanzia di un significativo pagamento). Designato console per il seguente anno, dopo aver indetto le elezioni con l’ufficio straordinario di dictator comitiorum habendorum causa, si scontrò con Pompeo in battaglia: in inferiorità per numero e armamenti fu sconfitto a Durazzo nel luglio del 48, ma il 9 agosto a Farsalo ottenne una vittoria che spinse Pompeo a fuggire nell’Egitto tolemaico, dove sbarcato fu assassinato (28 settembre) nell’illusione degli uomini di corte di riuscire graditi a Cesare, che giunto qui però rese onore al rivale. Passatovi dalle province d’Asia rafforzò sul trono la posizione di Cleopatra VII – dalla quale sembra abbia avuto un figlio (Tolomeo Cesare) – a discapito dei  fratelli Tolomeo XIII e Tolomeo XIV (48-47). Ottenuti dunque dal senato un consolato quinquennale, la facoltà del diritto di veto tribunizio (a qualsiasi provvedimento pubblico) e la dittatura per un anno (in qualità di magister populi indicò suo luogotenente, magister equitum, Marco Antonio), sconfisse nel 47 in territorio asiatico Farnace II re del Ponto (che preoccupava gli interessi romani), e i pompeiani, nel 46 in territorio africano sostenuti dai Numidi (la Numidia fu annessa come nuova provincia) e definitivamente nel 45 in territorio spagnolo. Dalla seconda metà del 46 – che vide le celebrazioni a Roma dei trionfi bellici cui presenziarono Cleopatra, un fratello, e il figlio soprannominato in Egitto piccolo Cesare – sino all’uccisione si dedicò al riordino statale. Assunse l’attributo di imperator nella funzione di praenomen. Nel 46 ebbe conferito un incarico dittatoriale di durata decennale, e nel gennaio del 44 diventò dittatore a vita (dictator perpetuus). Concentrò su di sé: la potestà tribunizia (il che gli concedeva, oltre al veto, la speciale immunità personale e il diritto di convocare l’assemblea della plebe, le cui deliberazioni – i plebisciti – avevano valore di legge, e il senato); i poteri della censura (riguardanti il rinnovo degli elenchi dei senatori e dei cavalieri); la prerogativa di stabilire le candidature dei magistrati; la facoltà di deliberare norme che impegnavano il senato all’impegno di rispetto; il potere proconsolare di governo, civile e militare, sulle province (esercitato attraverso delegati). Soppresse i raggruppamenti religiosi dei ceti inferiori fonte di divisione e agitazione sociali, ceti ai quali altresì dimezzò l’assegnazione gratuita di alimenti; diede il via alla costruzione di nuove infrastrutture al fine di risolvere il problema della disoccupazione; favorì l’emigrazione dall’Italia verso le province per offrire prospettive di vita migliore e per rafforzare il controllo territoriale (soprattutto a Oriente); estese il diritto di cittadinanza ai Galli; stabilì misure di estinzione dei debiti che non tenessero conto della forte inflazione del denaro (in passato era intervenuto ad aiutare gli indebitati applicando delle agevolazioni). Elevò il numero dei senatori, da 600 a 900, per mezzo dell’ingresso di nuovi elementi provenienti dalle province e dall’insieme degli ufficiali minori dell’esercito (tra i nuovi alcuni di etnia gallica), e quello dei questori da 20 a 40 (questi, eletti da tutti i cittadini, avevano mansioni giudiziarie e di vigilanza sulla pubblica finanza). Garantì alla classe equestre, a vocazione affaristica, lo stesso numero di rappresentanti dati alla classe senatoria nelle commissioni di sorveglianza sulle province. Riformò il calendario, da lunare a solare, e il mese di nascita gli fu intitolato (Iulius). Ebbe inizio il culto religioso della sua persona proseguito dopo la sua morte. L’auspicio cesariano di ammodernare l’ordinamento repubblicano con la collaborazione della vecchia oligarchia, fondandolo sulla figura di un princeps, nonostante la sua proverbiale clemenza verso i pompeiani e il conferimento di incarichi politici a esponenti oligarchici, non ebbe realizzazione per la diversità di interessi tra optimates e populares. Dopo che il 15 febbraio del 44 a Roma aveva rifiutato la triplice offerta in pubblico di una corona fatta dal collega console Marco Antonio, cadde il 15 marzo, vittima di una congiura, dentro l’aula del senato davanti alla statua di Pompeo – che aveva fatto divinizzare –, sotto i colpi di 23 pugnalate (di cui mortale la seconda di uno dei fratelli Casca). Allora si apprestava a due campagne belliche contro i Parti e i Daci, che se vittoriose avrebbero consolidato il suo potere, e ciò non piaceva ai congiurati guidati dai pretori Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino: la loro preoccupazione principale era che Cesare trasformasse la repubblica in una monarchia di tipo orientale accompagnata dalla deificazione del re. Bruto era nipote, genero e ammiratore di Catone l’Uticense, ma anche figlio di un’amante di Cesare e suo sospetto illegittimo; vistolo tra i senatori aggressori, probabilmente in greco (e non in latino), gli disse: «Καὶ σὺ τέκνον; (Tu quoque, Brute, fili mi!)». Il 17 marzo Marco Antonio, ricevuto il testamento cesariano dall’ultima moglie Calpurnia, ne diede pubblica lettura: risultava tra l’altro l’adozione del pronipote Gaio Ottavio (più conosciuto poi come Augusto), cui lasciava il grosso delle sue sostanze (il 75%), e il lascito di 300 sesterzi a ogni cittadino dell’Urbe. Il 20 si tenne la pubblica cerimonia funebre di cremazione del corpo in mezzo al cordoglio popolare, alla quale seguirono violenti disordini. Nel giro di pochissimi anni tutti i cesaricidi finirono uccisi. Cesare in gioventù era stato autore di scritti in versi – il suo corpus ha conservato solo i Commentarii – la cui diffusione fu scoraggiata durante il principato augusteo. Del 46 era un’opera intitolata Iter, e posteriore l’Anticato, che demitizzava la figura dell’Uticense (il quale anticesariano fino al suicidio era stato pure sostenitore dell’inutilità della conquista gallica). Rimane notizia di due raccolte cesariane: le Epistulae (ad Senatum, ad Ciceronem, ad Familiares) e le Orationes. Dal suo cognomen latino – Caesar, assorto a titolo imperiale romano – hanno avuto origine etimologica gli appellativi di kaiser e zar.


Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Momenti di storia antica”
https://www.academia.edu/4355394/Momenti_di_storia_antica