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mercoledì 24 luglio 2013

L’“UTOPIA” DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

di DANILO CARUSO

Negli affari di Stato il tentativo di cogliere l’opportunità al volo a prescindere da considerazioni di carattere ideologico e morale è un tentativo che non sempre ha successo e non sempre paga. Questo è stato il fondamentale errore dell’Italia fascista alla fine degli anni ’30: l’avvicinamento, pure sul piano della condotta, alla Germania nazista è equivalso a un’alleanza con una ideologia del male. Con l’emanazione delle leggi razziali (1938) il fascismo si è deteriorato, e da movimento che aveva ottenuto la simpatia e l’appoggio delle masse, per compiacenza verso i nazisti, introdusse in Italia norme inaccettabili e si legò a un alleato che lo avrebbe portato alla rovina. La tardiva partecipazione all’ultimo conflitto mondiale, dieci mesi dopo il suo inizio, è la riprova di voler stare dalla parte dei potenziali vincitori (i Tedeschi) nel timore inoltre che questi dopo aver sconfitto Francia e Inghilterra non avessero difficoltà a prendere di mira in un secondo momento anche l’Italia che era stata a guardare. Una strategia politica guidata quasi esclusivamente da opportunismo può portare al disastro e alla sconfitta, come è effettivamente successo. L’alleanza tra Germania nazista e Italia fascista era un’alleanza di politica estera: il nazismo e il fascismo non avevano ideologie molto simili, e anzi i fascisti – che non erano stati antisemiti fino al ’38, né tanto meno paganeggianti – non avevano visto di buon occhio l’emergente nazismo (il cancelliere austriaco filofascista Dollfuss era stato ucciso da terroristi nazisti, e Mussolini in un discorso pubblico aveva ricordato che le popolazioni germaniche vivevano in uno stato barbarico quando a Roma antica c’erano Augusto e Virgilio). L’avvicinamento tra i due movimenti avvenne dopo la seconda guerra d’Etiopia (1935-36), durante la quale l’Inghilterra fu tra coloro che votarono alla Società delle nazioni le sanzioni contro l’Italia per l’impresa di conquista, ma gli Inglesi dietro la cessione dei diritti sui pozzi petroliferi dell’AGIP in Iraq fecero passare le navi di rifornimento italiane dal Canale di Suez: fu quest’atteggiamento di ambiguità a spingere nel contesto politico estero l’Italia verso la Germania e ad allontanarla dai compagni della vittoria cosiddetta mutilata nella prima guerra mondiale. Un’ipotesi vorrebbe l’ingresso in guerra degli Italiani sollecitata da Churchill, perché paventava in caso di sconfitta di trovarsi a disagio davanti alla sola Germania vincitrice, mentre il governo italiano, anch’esso in prospettiva futura tra i vincitori, avrebbe potuto moderare le pretese dei nazisti e l’urto della sconfitta: qui però si entra in un campo che riguarda il famoso carteggio Churchill-Mussolini, e non è possibile fondare un giudizio storico inoppugnabile. In parole povere quando il buon senso negli anni della guerra consigliava di non schierarsi con la Germania (come fu fatto per quasi un anno) tutto finì per congiurare a favore di una partecipazione militare che con l’allargamento delle ostilità a livello mondiale non sembrò più foriera di vittoria. Non fu però solo la Germania a scatenare lo scoppio della guerra in Europa: bisogna ricordare che con il patto Ribbentrop-Molotov Tedeschi e Russi si erano divisi la Polonia, per la cui difesa Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania; perché non anche all’URSS con cui anzi si allearono dopo che questa fu attaccata nel ’41? Anche l’Unione sovietica ha delle responsabilità per la condivisione dei piani espansionistici tedeschi: perché l’URSS non difese la Polonia? L’Italia dal canto suo sbagliò ad allinearsi con chi sembrava più forte, avrebbe dovuto invece difendersi allorché fosse stata attaccata da chiunque. La guerra, come tutte le guerre, fu tragica sino alla caduta del fascismo, ma quello che accadde dopo fu ancora più tragico e luttuoso. Dopo il 25 luglio 1943 quello che accadde è frutto dell’operato del nuovo governo che firmò l’armistizio. Un governo diverso per il dopo Mussolini, come era negli accordi tra monarchia e dissidenti fascisti guidati dal filoinglese Grandi, formato da fascisti, tecnici e politici di altre forze, si sarebbe fatto trovare molto probabilmente più preparato. L’esistenza storica della Repubblica sociale italiana è ignorata da molti, e tra quelli che ne sanno la considerazione è quasi esclusivamente quella di uno Stato fantoccio al servizio dei Tedeschi occupatori: questa è una parte della verità, la verità sostanziale, a volte mal inquadrata nella dinamica degli eventi. Gli antefatti che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943 hanno in sé le radici che spiegano i due anni di storia successiva fino al 25 aprile 1945, una storia che viene vista, come giusto dato acquisito, di liberazione dall’invasore nazista e di parziale guerra civile (dopo l’armistizio con gli Alleati un’invasione tedesca in Italia ci sarebbe stata quasi certamente comunque). Mussolini fu arrestato subito dopo essersi dimesso da capo del governo, la monarchia progettava da prima una congiura e non comprese che l’arresto di un Mussolini dimissionario avrebbe peggiorato la situazione: il duce era uscito dalla scena politica spontaneamente, bastava organizzare solamente il previsto governo. Ma anche qui la monarchia si comportò inadeguatamente: provocò la caduta completa del regime con cui aveva coabitato per un ventennio, non rispettò l’accordo, e tutto finì d’un colpo allo sbando. Il nuovo governo Badoglio non seppe organizzare tempestivamente nulla se non la fuga con il re. Non esisteva alcun progetto di difesa da una prevedibile invasione tedesca. Se il re fosse rimasto a Roma con un altro governo più premuroso e più cauto, che avesse mantenuto soprattutto l’unità nazionale, è possibile che i Tedeschi non andassero più a sud della Pianura Padana e che nel giro di pochi mesi, con il sostegno degli Alleati, fossero ricacciati al di là delle Alpi. Non ci sarebbe stata la Repubblica sociale italiana – canto del cigno del fascismo –, non ci sarebbe stata la legittima guerra partigiana, molti di meno sarebbero stati gli Italiani catturati dai Tedeschi. Di un’altra storia si sarebbe parlato oggi, una storia che non avrebbe avuto né vincitori né vinti, né odi né rancori che sono perdurati per decenni, per chi costretto a scegliere si trovò a stare da una parte o dall’altra. Dopo l’8 settembre i nazisti invasori avevano in mente uno Stato fantoccio alla “Vichy”: era papabile per la sua guida Roberto Farinacci, fascista filonazista, però dopo che i Tedeschi liberarono dalla prigionia Mussolini e lo ebbero in pugno quest’ultimo non si poté tirare indietro. Non si guarda il lato ideale di quella repubblica, obiettivamente con tutti i suoi aspetti negativi, per un’analisi storiografica più articolata, perché è sopraffatto da un insopprimibile peso. I lati più negativi della RSI consistono nella prosecuzione della guerra accanto all’alleato precedente (con tutte le sue conseguenze) e nel mantenimento delle leggi razziali. Se il distacco dall’alleanza germanica fosse stato meno «ignobile» (come lo definisce l’inno della Xma MAS) il senso dell’onore e della coerenza, pur fuori luogo e mal giustificato, forse non avrebbe spinto molti fascisti a ritornare a sbagliare: in aggiunta alla caduta del regime il governo Badoglio dopo un mese e mezzo di continuazione nel conflitto, tenendo all’oscuro i Tedeschi dei suoi propositi, firmò l’armistizio. Esistevano modi più dignitosi e meno traumatici per uscire da una guerra in cui assolutamente l’Italia non doveva entrare come promotrice accanto ai nazisti. Il percorso ideologico dell’ultimo fascismo monarchico fu caratterizzato dall’indelebile e gravissima responsabilità nell’adozione di provvedimenti discriminatori verso gli Ebrei seguendo il pessimo e tragico esempio nazista. Bisogna ricordare che l’antisemitismo moderno ebbe una gestazione religiosa che ne assecondò la diffusione, tant’è che nel caso fascista si accennava a richiami di norme antisemite emanate in alcuni concili (quello Lateranense del 1215, quello di Bezieres del 1246 e quello di Orleans del 1553), e che tra le varie personalità di spicco a mostrare plauso per le leggi razziali italiane ci furono, per fare qualche significativo esempio, Romolo Murri, Luigi Gedda, Amintore Fanfani, Pietro Badoglio e Giovanni Guareschi. Addirittura l’espressione «oremus pro perfidis Iudaeis (preghiamo per i perfidi Ebrei)» scomparirà dalla liturgia cattolica anni dopo l’Olocausto con il Concilio Vaticano II (1962-65). Durante il periodo della Repubblica sociale fascisti e nazisti non andarono perfettamente d’accordo: i Tedeschi allargando i propri confini erano arrivati fino all’Adriatico e un canto fascista recitava: «guai a chi dal Brennero il cippo sposterà»; inoltre i nazisti non gradivano lo spostamento a sinistra della politica sociale di Salò (lo Stato stava per chiamarsi REPUBBLICA SOCIALISTA ITALIANA). Il fascismo repubblicano si riallacciò alle proprie origini del primo dopoguerra mondiale (il sansepolcrismo). Il filosofo Giovanni Gentile che aderì alla RSI (come, tra altri, Nicola Bombacci, uno dei fondatori del PCI) aveva definito i comunisti «corporativisti impetuosi». Lenin anni addietro era stato un estimatore del Mussolini socialista massimalista. Il corporativismo dell’ultimo fascismo proponeva l’armonizzazione integrale del mondo del lavoro attraverso la soppressione della dicotomia “datori di lavoro / prestatori d’opera” e la creazione di un unitario organismo sindacale (da ogni base corporativa era pure prevista l’elezione di ogni ministro del governo nazionale). La socializzazione delle imprese fu un esperimento che spodestava radicalmente il capitale dal suo tradizionale predominio per consegnare la direzione imprenditoriale privata a meccanismi di democrazia interna che concedevano larghissimi spazi ai lavoratori. Sotto questo profilo sociale d’analisi risultano interessanti a) il punto 15 del Manifesto del Partito fascista repubblicano (diritto alla casa) e b) gli articoli 113-124 del progetto costituzionale della Repubblica (diritto al lavoro).

a)
Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il Partito inscrive nel suo programma la creazione di un Ente nazionale per la casa del popolo, il quale, assorbendo l’Istituto esistente ed ampliandone al massimo l’azione, provvede a fornire in proprietà la casa alle famiglie di lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto di quelle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto – una volta rimborsato il capitale pagato nel giusto frutto – costituisce titolo di acquisto. Come primo compito l’Ente risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra con la requisizione e la distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie.

b)
113- Il lavoro è il soggetto e il fondamento dell’economia produttiva.
114- Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali è un dovere nazionale. Soltanto il cittadino che adempie il dovere del lavoro ha la pienezza della capacità giuridica, politica e civile.
115- Come l’adempimento del dovere di svolgere l’attività lavorativa secondo le capacità e attitudini di ognuno è pari titolo di onore e di dignità, così la Repubblica assicura la piena uguaglianza giuridica di tutti i lavoratori.
116- La Repubblica garantisce a ogni cittadino il diritto al lavoro, mediante l’organizzazione e l’incremento della produzione e mediante il controllo e la disciplina della domanda e dell’offerta di lavoro. Il collocamento dei lavoratori è funzione pubblica, svolta gratuitamente da idonei uffici dell’organizzazione professionale riconosciuta.
117- Poiché la attuazione, rigorosa e inderogabile, delle condizioni fondamentali costituenti garanzia del lavoro è di preminente interesse pubblico, la disciplina del rapporto di lavoro è affidata alla legge o alle norme da emanarsi dall’organizzazione professionale riconosciuta. Tali norme si inseriscono automaticamente nei contratti individuali, i quali possono contenere norme diverse ma soltanto più favorevoli al lavoratore.
118- La retribuzione del prestatore di lavoro deve corrispondere alle esigenze normali di vita, alle possibilità della produzione e al rendimento del lavoro. Oltre alla retribuzione normale saranno corrisposti al lavoratore anche nello spirito di solidarietà tra i vari elementi della produzione, assegni in relazione agli oneri familiari.
119- L’orario ordinario di lavoro non può superare le 44 ore settimanali e le 8 ore giornaliere, salvo esigenze di ordine pubblico per periodi determinati e per settori produttivi da stabilirsi per legge. La legge o le norme emanate dalle associazioni professionali riconosciute stabiliscono i casi e i limiti di ammissibilità del lavoro straordinario e notturno e la misura della maggiorazione di retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario.
120- Il lavoratore ha diritto a un giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica e a un periodo annuale di ferie retribuito.
121- Ogni lavoratore ha diritto a sciogliere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Se il licenziamento avviene senza sua colpa, il lavoratore ha diritto, oltre a un congruo preavviso, a un’indennità proporzionata agli anni di servizio.
122- In caso di morte del lavoratore, quanto a questo spetterebbe se fosse licenziato senza sua colpa, spetta ai figli, al coniuge, ai parenti conviventi a carico o agli eredi, nei modi stabiliti dalla legge.
123- La previdenza è un’alta manifestazione del principio di collaborazione tra tutti gli elementi della produzione, che debbono concorrere agli oneri di essa. La Repubblica coordina e integra tale azione di previdenza, a mezzo dell’organizzazione professionale, e con la costituzione di speciali Istituti per l’incremento e la maggiore estensione delle assicurazioni sociali. L’opera convergente dello Stato e delle categorie interessate deve garantire a tutti i lavoratori piena assistenza per la vecchiaia, l’invalidità, gli infortuni sul lavoro, le malattie, la gravidanza e puerperio, la disoccupazione involontaria, il richiamo alle armi.
124- Allo scopo di dare e accrescere la capacità tecnica e produttiva e il valore morale dei lavoratori e di agevolare l’azione selettiva tra questi, la Repubblica, anche a mezzo dell’associazione professionale riconosciuta, promuove e sviluppa l’istruzione professionale.


A distanza di tanti anni da quegli eventi si parla del “sangue dei vinti”, il giornalista Giampaolo Pansa ha affrontato in alcuni suoi libri un rovescio della medaglia poco noto. Se il fascismo fu protagonista e promotore di violenza e guerre, fermamente da condannare, in frangenti della sua azione, in contesti vari in cui non efficace fu la mediazione per evitare il peggio e queste vie trovavano facile accesso, è anche vero che i fascisti di Salò, che credevano in idee solamente in parte lecite, subirono violenze altrettanto ingiustificabili. Pansa ha trattato lunghe serie di episodi riguardanti i cosiddetti “repubblichini”. Mai un male può giustificarne un altro: la violenza è incompatibile con la civiltà umana e con la democrazia, entrambe vanno difese da qualsiasi attacco e dal pericolo di disordini sociali, conflitti bellici e discriminazioni di tutti i tipi. La Repubblica sociale ebbe a carico un enorme numero di vittime a causa della guerra e dell’occupazione militare straniera, il suo patrimonio d’idee può essere analizzato per vedere ciò che non porta il segno del male. Il corporativismo fascista non coinvolge ideologicamente l’antisemitismo, e il primo considerato per sé può essere studiato come dottrina socio-economica autonoma. Da una ideologia che non sia integralmente votata al male, come invece lo fu il nazionalsocialismo, la parte concettualmente sana può distinguersi, tenendo ben chiaro e inamovibile che la netta e universale condanna maturata verso tutte le persecuzioni e lo sterminio degli Ebrei perseguiti dai nazisti e dai loro alleati non può in nessun tempo e in nessun luogo essere rimossa o corrotta da forme di negazionismo o menomata da qualsiasi analisi.