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lunedì 1 settembre 2014

IL DIO DEL TANAK NON È SOLO

di DANILO CARUSO

Indagando la fondazione e gli sviluppi della religione giudaica non si può fare a meno di tener presente la sua nascita dall’atonismo, il quale nell’Egitto del XIV sec. a.C. fu la prima dottrina teologica occidentale di un Dio universale (seppure venata di toni panteistici e in un regime ancora enoteistico). Le vicende del cosiddetto esodo degli Ebrei risalgono al secolo successivo, quando bandito l’eretico pensiero del faraone mistico Akenaton dal ritorno allo status quo, ai seguaci della sua dottrina non restò altro che cercare migliore sorte altrove ad ortum solis. Così Aton, nell’inserirsi in un contesto nuovo, fu sottoposto a un articolato processo intellettuale di adattamento, all’inizio di cui gli si sovrappose la figura esteriore di YHWH. Per inciso, riguardo al tetragramma, poiché la vocalizzazione masoretica non è univoca ed è frutto di un convenire non inerente alla corretta pronunzia del nome, chiarisco che lo riporterò da qui com’era nell’originario ebraico senza vocali: da varie fonti antiche siamo informati che YHWH suonasse qualcosa come “Iao”; nell’Ottocento Wilhelm Gesenius lo traslitterò vocalizzato in “Yahwèh” (lettura al momento di maggior successo). 
L’Ebraismo è sorto dall’incontro di due componenti: una egizio-atonista, emigrata dalla propria patria verso oriente alla ricerca della terra promessa, e una asiatica incontrata, incorporata e integratasi nel nascente gruppo etnico.
Questo processo di fusione di due schemi culturali mediò verso il basso, alla volta dell’imbarbarimento di un modello di società più progredito qual era quello egiziano. A testimonianza di questa duplice radice Israele assunse due padri: uno biologico, il Caldeo Abramo (soggiornato in Egitto), e uno spirituale, Mosè (nato in Egitto e formatosi alla corte del faraone). Dietro i teonimi Adon e Adonai si cela Aton (di cui Adon è variante diretta del nome).
La denominazione Elohiym del Dio ebraico invece potrebbe apparire nel Tanak masoretico superficialmente non chiara. Tale nome ha morfologia plurale (come testimonia la terminazione in -iym), il suo singolare è “Eloah” (rimasto nel giudaismo un appellativo divino). Le concordanze di tale termine all’interno dei testi biblici sono diverse. Elohiym in alcuni contesti designa dei (altri) ed è da volgere al plurale letterale, il singolare generico diventa “el” (dio, ma attenti parola riferita anche a YHWH Elohiym). Eloah è pur sempre usato in tal accezione generale, come ad esempio in Sal 18, 28-32 dove compaiono tre tipi di singolare differenti che indicano Dio; è Davide a parlare: «… YHWH mio Elohiym… per mezzo del mio Elohiym… Lo El (ha-El), la via di Lui… la parola di YHWH… Chi è Eloah [divinità suprema] all’infuori di YHWH e chi è roccia a eccezione del nostro Elohiym… Lo El (ha-El) me gingente abitualmente di forza…». O in Sal 114,7: «Alla presenza di Adon, trema terra, davanti all’Eloah di Giacobbe». Ecco alcuni casi in cui elohiym è traducibile al plurale: Gn 3,5 in cui compaiono un uso al singolare, «yodea (participio maschile singolare, qal) Elohiym… (Dio è uno che sa…)», e uno seguente al plurale «k-elohiym yodeey (participio costrutto maschile plurale, qal)… (come dei conoscitori di…)»; Es 12,12 (notevole perché è utilizzato il nome YHWH a parte); Es 20,3 che parla di «elohiym acherim (altri)»; Es 32,4 che concorda nel testo masoretico un dimostrativo al plurale (elleh eloey-ka); Es 32,23 che fa dire dagli Ebrei ad Aronne: «Che tu faccia elohiym che vadano (ieleku, 3a persona maschile plurale dell’imperfetto qal) di fronte a noi». 2 Cr 32,15 mette in bocca al re assiro Sennacherib un’interessante varietà di nomi e di usi: «Chi tra ognuno degli elohiym (be-kol-elohey, preposizione prefissa+nome maschile singolare costrutto+nome maschile plurale) delle nazioni… poiché nessun eloah (kiy-lo… kol-eloah) di nessuna nazione… per il fatto che il vostro elohiym (elohey-kem)».
La polivalenza semantica del termine indica la qualità del “complesso divino”: la sua estensione, ripartita fra «elohiym acherim», viene superata nel tempo dall’intensione del Dio giudaico (e poi cristiano). Perciò in senso diacronico l’estensione di questo concetto, da plurale e ripartita, in questa teologia procede verso l’assorbimento (sussunzione) degli “el”, finendo col restare individuata da un nome plurale (dato dalla pratica linguistica), però sotto il profilo del numero divenendo più compatta sino all’unità e all’unicità (teologica). Ad esempio il concorrente Baal, definito come uno che cavalca le nubi (lo stesso vedasi di YHWH in Dt 33,26 e Sal 68,5), fu, in un secondo momento, con violenza sui suoi sostenitori, sconfitto, cancellato e sussunto. Rilevante 1 Re 18,20-40 il quale narra la sfida, tutta dentro a Israele, lanciata da Elia ai profeti di Baal (e di Asherah) allo scopo di verificare chi tra questo e YHWH sia «l’Elohiym (18,24: ha-Elohiym, usato ben due volte, la prima in senso generale ristretto, la seconda in senso specifico puntuale)»: nella gara al miracolo «l’Elohiym [tra YHWH e Baal] che risponderà mediante il fuoco sarà divenuto l’Elohiym». Elia disse che la sua invocazione sarebbe stata attraverso il nome di YHWH, mentre ai rivali prima aveva esclamato (18,24): «Voi avrete invocato per mezzo del nome dell’Elohiym vostro (elohey-kem)… ». In seguito li sbeffeggiò affermando che Baal è “un elohiym” (sono presenti nel testo più riferimenti al singolare) impegnato in altre faccende (18,27). L’essere “Elohiym” appare distinto dall’essere “YHWH” o “Baal”, appare una qualifica e un’attribuzione, che celano nonostante tutto uno sfondo semantico di pluralità se così Elia si esprime in 1,36-37: «YHWH, Elohiym di Abramo, di Isacco, e di Giacobbe, in questo giorno sia noto che tu sei Elohiym in Israele… Conosca questa gente che tu YHWH sei l’Elohiym (ha-Elohiym)… ».
Il termine Elohiym sembra additare il Dio di appartenenza (etnica) e Baal può qualificarsi tale in questo scontro interno. Baal era stato un titolo zonale dato a divinità i cui seguaci si radicavano in maniera stabile in una zona. I baaliym furono diversi, e tra di loro lo stesso YHWH. Ben vedendo emerge la natura del monoteismo nazionale ebraico, il quale inquadrato inter nationes, inter gentes, diventa un enoteismo. Dalla Genesi si procede semanticamente a ritroso: dal punto di arrivo, dall’Elohiym uno che sistema l’universo, alle sfaccettature e al significato in principio plurale della parola. Gli Ebrei, in seguito alla teologica scrematura estensiva, chiamano Elohiym il solo loro Dio, ma a livello di linguaggio designano con la stessa parola anche altri dei. Apprezzabile questo brano di Genesi (35,1-7) che smonta, seziona la copertura semantica dei significati di Elohiym (il teonimo riferendosi a Dio concorda verbi al singolare e al plurale, il quale Dio è in aggiunta indicato dal nome “El”): «Elohiym disse a Giacobbe: “… Costruirai un altare al Dio (la-El) che era apparso a te durante la tua fuga da tuo fratello Esaù”. Giacobbe disse…: “Che facciate portar via gli elohiym (et-elohey, sostantivo costrutto) dello straniero… Farò là [a Betel] un altare al Dio (la-El)  che rispose a me…”… Diedero a Giacobbe tutti gli elohiym  (et kol-elohey, aggettivo+sostantivo costrutto) dello straniero… [Giacobbe] costruì lì un altare e chiamò quel posto El Beyt-El per il fatto che là gli Elohiym (ha-Elohiym) si erano rivelati (niglu, 3a persona plurale del perfetto nifal) a lui». Elohiym, al singolare e da solo, si alterna a tratti nei testi di Genesi al binomio «YHWH Elohiym» il quale compare la prima volta in Gn 2,4 (dopo aver completato il creato nel settimo giorno): l’espediente del binomio vuol mediare la religiosità di quella parte di provenienza non egizia, bensì vicinorientale, dell’ibrido gruppo etnico ebreo, da cui la figura di YHWH provenne (uno Yaw era figlio del dio semitico Baal e della compagna Asherah).
La tradizione elohista, filoegizia, è il collante di tutto, è più forte e più robusta di quella jahvista, che ha una dialettica di costruzione marcatamente più policentrica. In Gs 24,19 è spiegata la difficoltà di scegliere YHWH: «… Poiché gli elohiym [intesi tutti, YHWH compreso] sono da rispettare (qedoshiym, aggettivo maschile plurale predicato nominale della causale e non attributo), Egli [YHWH] è un Dio geloso (hu El-qanno, sequenza di termini tutta al maschile singolare)… ». La subordinata qui chiarisce il motivo della gelosia (geloso di chi? Degli altri elohiym) e mostra un sostrato di politeismo. D’altronde questo humus è reso noto in Gdc 2,11-13 laddove si afferma che gli Ebrei a YHWH preferivano i baaliym, diversi elohiym dei popoli circostanti, trasformandosi in adoratori di Baal e delle ashtarot (divinità femminili). Leggendo questo brano da Dt 32,3-21 – in cui parla Mosè – si nota che YHWH appare un El nella moltitudine, ancora distinguibile da Elyon (il quale gli è stato saldato sopra), e inoltre è chiamato Eloah: «… Proclamo il nome di YHWH, assegnate grandezza al nostro Elohiym (le-lohey-nu)… un Dio (El) di fedeltà… Nel far dare il possesso delle nazioni l’Altissimo (Elyon) fece fissare i confini… la parte di YHWH è il suo popolo, Giacobbe è il gruppo del suo possesso ereditario (chebel nachalat-o)… YHWH in solitudine lo fece guidare e con esso [popolo d’Israele] non era nessun el dello straniero… [Israele] ha abbandonato Eloah… Lo [a YHWH] fecero diventare geloso a causa di stranieri (be-zariym)… Loro sacrificarono a demoni (la-shediym) non essenti Eloah, i quali erano elohiym che non conoscevano… Hai dimenticato lo El che ti ha partorito (mecholele-ka, participio maschile singolare costrutto, polel)… YHWH vedeva… [parla adesso YHWH citato da Mosè]… Mi resero di solito geloso grazie a non el (be-lo-el)…». Qui è il caso di aggiungere che Elyon è il medesimo El di cui Melchisedek – incontrato da Abramo ritornato dall’Egitto – era sacerdote (Gn 14,18-19): «El Elyon possessore (qoneh: participio maschile singolare costrutto, qal) dei cieli e della terra». E in quella circostanza da Abramo subito associato a YHWH: «YHWH El Elyon possessore dei cieli e della terra (Gn 14,22)». Evidente è l’impressione che nell’esprimere il concetto del “divino” si parta da una pluralità di fondo (come sembra anche in Gn 1,26) di cui il nome Elohiym in taluni casi denota una puntualizzazione astraente (non solo nella forma singolare). È difficile stabilire la natura di questo “collegio divino”, tuttavia la stessa Gn (1,27) dà uno spunto laddove dice «l’adam» creato «attraverso (be-, preposizione prefissa locativa e strumentale) la sua immagine (-tsalm-o)… maschio e femmina»: potrebbe intendersi Elohiym, in queste circostanze, come “coppia divina primordiale dei principi maschile e femminile” più o meno differenziata nella sostanza interna a seconda del taglio speculativo che si voglia dare o dello stadio cronologico di sviluppo del testo (qua, ad esempio, c’è un correlarsi nel numero singolare).
Nella seconda metà degli anni ’70 nel Sinai settentrionale furono trovati dei reperti a Kuntillet Ajrud risalenti all’VIII sec. a.C. con epigrafi le quali parlano di YHWH legandolo territorialmente, ma soprattutto presentandolo – nonostante prospettive interpretative divergenti – in coppia con la dea Asherah (o figura mitologica personificata od oggetto sacro): YHWH e la sua Asherah. È possibile a livello popolare girasse un un culto di coppia sul tipo “Baal/Asherah”. Alcuni passi veterotestamentari menzionano un’origine sinaitica di YHWH (Dt 33,2) e una meridionale di Eloah (Ab 3,3). Sebbene il concetto di Elohiym avesse consentito a YHWH di assorbire altri el e relative funzioni – tra loro dei egizi, il cui portato nella cosmogonia della Genesi è fondamentale –, Egli rimase agli occhi degli Ebrei un Dio nazionale, al quale riconoscevano il primato assoluto, che però al proprio esterno ammetteva l’esistenza e la pluralità di el a Lui inferiori. Una visione enoteistica palese nella terminologia di Dn 11,36-38: «Il re [Antioco IV Epifane]… si magnificherà sopra ogni el e sopra lo El degli elohiym… E non distinguerà sopra gli elohiym dei suoi padri… e nessun Eloah… E all’Eloah delle fortezze farà dare onore, Eloah che i suoi padri non conoscevano…». Adesso siamo nelle migliori condizioni per capire cosa vuol dire, e come tradurre in conformità al sistema grammaticale e semantico ebraico, un versetto molto noto del Vecchio Testamento, Dt 6,4: «Shema Yisrael: YHWH Elohey-nu, YHWH echad». Tutto ruota attorno all’ultima parola: «echad». La quale è un numerale cardinale che si comporta, concordandosi, a guisa di un aggettivo: significa “uno”. Ma è da puntualizzarsi subito che tale numerale non può assumere il valore concettuale di “uno solo” o “unico”: il numerale “echad (maschile singolare)”, allo stesso modo di tutti gli altri cardinali, tiene computo di quantità discrete non aggiungendo al suo concetto che le unità indicate possano essere “uniche” nel loro genere. Il significato di “unico”, “solo” è espresso da uno specifico aggettivo: yachiyd. In Gn 22,2 quando Dio dice ad Abramo di prendere il suo unico figlio e di offrirglielo in sacrificio, gli dice di prelevare il figlio Isacco «et-yechiyd-ka (unico-di-te: particella introducente il complemento oggetto+aggettivo maschile singolare costrutto+suffisso pronominale della 2a persona maschile singolare)»: non è usato il numerale cardinale “echad”. Il quale però viene utilizzato poco dopo al fine di segnalare la montagna su cui Dio vuole che vadano: «al (preposizione) achad (numerale maschile singolare costrutto) he-hariym (articolo+nome maschile plurale)». Questi due usi nell’ambito di un medesimo versetto danno già sufficiente chiarezza. Successiva alla pars destruens è la pars costruens: la comprensione del valore grammaticale di “echad”. Questo numerale significa “uno”, ed essendo precisi “numero uno”.
Il suo utilizzo non sempre quantifica entità discrete, “echad” può altresì trovarsi precisante una posizione ordinale o gerarchica (la principale), ossia agisce da vero e proprio numerale ordinale. Non che il suo significato letterale venga stravolto, solo che da un conteggio di unità si passa al senso di un loro ordinamento. I numerali ordinali in ebraico antico esistono dal primo al decimo, per tutto il resto si usano i cardinali. Tuttavia nel Tanak in Aggeo 1,1 si trova l’esempio della sostituzione di “primo”e “secondo” con “uno” e “due”: i primi due cardinali al posto dei rispettivi ordinali. Ma la cosa consolidante tutto il ragionamento proviene dal fatto che venga adottato assieme a loro un esplicito ordinale: «Durante l’anno del (bi-shnat: preposizione prefissa+nome femminile singolare) numero due (shetayim: numerale cardinale femminile con valenza ordinale) riguardante il re Dario, nel mese (ba-chodesh: preposizione prefissa+nome maschile singolare) il sesto (ha-shishiy: articolo+numerale ordinale maschile singolare), nel giorno (be-yom: preposizione prefissa+nome maschile singolare) numero uno (echad: numerale cardinale maschile con valenza ordinale) in relazione al mese». Questo versetto di Aggeo ci conferma che i cardinali “uno e “due” possono assurgere al ruolo di ordinali precisando che si tratta di “numero uno” e “numero due” di rispettive serie. Pure in italiano si dice “essere il numero uno”, “tizio è il numero uno”, allo scopo di enunciare che qualcuno è il migliore in qualcosa o a capo di un organismo. Tale è il senso in Dt 6,4: «Ascolta Israele: YHWH è il nostro Elohiym, YHWH è il primo [il principale, il numero uno degli elohiym]». Predicare del soggetto YHWH che è uno di numero (quantità discreta) è tautologico (si sa che ogni soggetto singolare è uno), predicare che è unico (uno solo) è non corretto dal punto di vista semantico e costituisce un pregiudizio sintetico a priori. L’informazione qui presente, come del resto in Gn 22,2 (il numero uno, il primo dei monti) o in Gn 1,5, è di tipo ordinale. La scansione dei giorni della creazione si apre con echad: al giorno numero uno (yom echad) però seguono il secondo, il terzo… (yom sheniy, yom shelishiy…) fino al settimo. La primazia teologica ha cogente valore cultuale all’interno di Israele (monolatria), e questa non cancella il credo nell’esistenza di diversi dei (adorati da altre genti), neppur ritenendo gli Ebrei il loro Dio alla base dell’ordine universale. In Is 43,10-15 lo stesso YHWH è molto chiaro: «Voi siete un mio testimone… e un mio servo che io ho scelto… a) Di fronte a me (le-pana-y) non è stato modellato (lo-notsar) un el [idolo] b) e dietro di me (ve-achara-y) non c’era… A parte me non c’è nessuno che interviene in tuo favore… Nessun [el] estraneo era tra di voi e voi siete un mio testimone e io sono un El: c) anche [gam-] fuori del giorno [-mi-yyom, preposizione prefissa per il moto da luogo+nome: letteralmente lontano-dal giorno – opposto e complementare di layelah, notte – cioè:  24 ore su 24, anche al di là della fascia diurna oltre la quale il potere di una divinità solare – sul cui stampo il Dio giudaico è nato – sembra tramontare] io lo sono e non c’è uno che faccia prendere dalla mia mano; faccio e chi fa tornare indietro quella cosa?... Io sono YHWH, che tu devi rispettare (qedoshe-kem, aggettivo singolare costrutto+suffisso 2a persona plurale), chi ha formato (bore, participio singolare costrutto) Israele, il tuo re (malke-kem, nome singolare costrutto+suffisso 2a persona plurale)». Nel primo verso dei citati abbiamo l’immagine di un altarino su cui si ponevano la o le statuette di un dio, la quale vuol esprimere questo: a YHWH a) non è stato anteposto alcun dio (non è stato messo in secondo piano o scartato), b) né tanto meno YHWH è subentrato davanti a un altro lasciandoselo alle spalle (perché Israele è idealmente sorto accanto all’esclusivo patronato divino di YHWH su quel popolo prima del suo intervento inesistente). Nella prima metà a) compare un chiuso dato di fatto (perciò il modo verbale è il perfetto), nella seconda b) un ipotetico perdurare anteriore (quindi il modo imperfetto). Tutte le figurazioni di luogo a), b) e c) hanno sul piano temporale precisi significati. Tutto questo brano mostra da un lato lo schema sociale ebraico (una teocrazia integrale, una monarchia assoluta in cui il re era una sorta di “vicario di Dio”), dall’altro ancora come gli Ebrei pensassero esistenti e inferiori gli dei degli stranieri. In Is 45,18 Dio afferma di sé: «Io [sono] YHWH e non [sono uno] in aggiunta (od, avverbio)».


Per approfondimenti rinvio a miei lavori

RADICI EGIZIE NELLA COSMOGONIA EBRAICA

di DANILO CARUSO

Negli esiti elaborativi dell’ebraismo è possibile rintracciare vari significativi elementi canalizzati dal solco della sua radice prima, quell’esperienza atonista nel remoto Egitto di Akhenaton senza la quale non sarebbe sorto. Come la mitologia egizia era volgarizzazione di riflessioni teologiche, protofilosofiche, alla portata di tutti (non trascurando che l’aspetto deteriore di una religiosità popolare prosegue da sé verso forme di superstizione e di poco spirituale esteriorità), così nel Tanak masoretico non va ricercata l’analogia dei simboli (che si diversificano) bensì l’analogia dei concetti cui quei simboli rinviano. Un corretto procedimento ermeneutico porta a galla il lavoro sottostante alla lettera e di conseguenza si constata l’infiltrarsi di concezioni sorte nella terra dei faraoni anche antecedenti l’atonismo, le quali erano nozioni consolidate di quella civiltà così raffinata da superare la religione quotidiana ed essere riprese dalla filosofia greca. Il racconto sul principio dell’universo all’esordio della Genesi viene in genere inteso una serie di atti divini che traggono il tutto dal nulla. Una lettura attenta smentisce quest’idea di un produrre ex nihilo.
I verbi utilizzati per indicare l’attività creativa di Dio in Genesi sino al v. 2,4 (e peraltro sotto il circoscritto appellativo Elohiym) – “bara” e “asah” – sono più o meno sinonimi (tant’è che nella versione greca dei LXX sono volti tutt’e due con “poieo”, produco): prova ne sono i vv. 26-27, concernenti la creazione di adam, nei quali viene usato dapprima “asah” e poi “bara”.
Entrambi i verbi si riferiscono a una tipologia di operato che da una causa efficiente fa trasferire attraverso un’atto una determinazione formale: qui nel creare – come altrove – la forma, che è determinazione del prodotto, non fa materializzare «i cieli e la terra (et ha-shamayim veet-ha arets)» dal nulla.
Nel v.1 « Elohiym bara (3a persona maschile singolare del perfetto qal)» essi, nel v. 4 disse che la luce fosse (istituendo il giorno e la notte), nel v. 6 grazie a «una superficie estesa (raqiya, equivalente di ha-shamayim del v. 1 stando al v. 8)» separò le acque (ha-mmayim), delle quali non viene detto niente in merito alla loro comparsa, segno che sono preesistenti alla creazione, coesistono con Elohiym, il quale da un suo intervento non creativo ex nihilo su di esse trae fuori i cieli (vv. 7-8) e la terra asciutta (erets, la stessa del v. 2) accompagnata dal mare (vv. 9-10). Nel v. 2 – in una sintesi di preludio con ordine cronologico di richiamo a ritroso rispetto a quanto narrato appresso – si dice che «la terra era stata un disordine e una vuotezza (tohu va-bohu), l’oscurità era stata sulla superficie dell’abisso (tehom, composto da un insieme di acque come del resto chiarito in Is 51,10), e «la ruach (respiro, alito, fonazione) di Elohiym nel mentre si propagava di continuo (merachepet: participio femminile singolare, piel) sulla superficie delle acque».
Qui si accenna a un «oceano primordiale (tehom)», di cui si ribadisce che, non essendone specificata la provenienza, è da ritenersi un ente non creato ma primigenio ab aeterno. Prv 8,22-24 – in cui parla la divina sapienza personificata – nel finale pare proprio alludere a questo aspetto di potenzialità originaria delle acque: «YHWH acquisì me come inizio del suo percorso [creativo], la primizia dei suoi lavori da allora, da lungo tempo (me-olam) sono stata tessuta, dal principio, prima della terra; non negli abissi (be-eyn-tehomot) fu il mio travaglio, non nelle sorgenti (be-eyn mayanot) che sono pesanti di acque (mikbaddey-mayim)».
Il costruire la realtà quotidiana, quella nota nell’antichità durante la stesura dei testi veterotestamentari, da parte di Elohiym è somigliante al metter mano su un acquario. Innanzitutto bisogna agire alla luce, la quale viene prodotta nel v. 4: la luce però non è tratta dall’abisso sulla cui superficie pesano le tenebre, essa è emanazione diretta di Elohiym in quanto divinità solare elaborata su Aton. Inoltre tutto ciò che si presenterà come “aereo” sembra essere emanazione di Dio sulla falsariga della ruach o di lei variante forma.
Nel libro di Giobbe il tuono è paragonato a una di Lui fonazione (37, 2 e 5), la di Lui nishmat (respiro, alito, fonazione) produce il ghiaccio e fa ritirare le acque, «per mezzo della sua ruach i cieli sono schiariti (26,13)». “Ruach” e il sinonimo “nishmat” sono veicoli di trasferimento di una forma, di trasmissione di una determinazione presso una materia, in taluni casi rendendola un essere animato (e veicoli in rapporto ai quali il linguaggio performativo divino è un lato particolare); in Gb 33,4 Eliu dice: «La ruach di un El (un Dio) mi ha fatto e la nishmat di Shadday [teonimo tradotto con “l’Onnipotente”, tuttavia di discussa etimologia] mi tiene costantemente in vita». Anche in Is 42,5 si dice dello El «che dà la nishmat alla gente su di lei [la terra] e la ruach a coloro che vi girano». Ritornando al filo principale, dentro all’acquario, allo scopo di ricavare uno spazio utile all’esistenza umana è inserito un soffitto intermedio il quale dà origine alle acque di sotto e a quelle di sopra (vv. 7-8): l’idea artigianale della sua fattura è esposta in Gb 37,18, il prodotto della colatura di una materia fusa e poi stirata (Eliu a Giobbe: «Fai tu battere con Lui per quanto concerne la volta del cielo, resistente come uno specchio che viene fatto versare?»).
Quindi nello spazio inferiore basta convogliare tutte le acque in una zona, separata da un suolo asciutto al fine di ottenere la terra calpestabile: il mare è imbrigliato, in più modi, durante la fase creativa (Gb 38,8-11). Is 45,18 ci ricorda di «IHWH che creò (bore) i cieli (ha-shamayim), … l’Elohiym (ha-Elohiym) che diede forma (yotser) alla terra (ha-arets), e la produsse (ve-os-ah), … la fece stare stabile (konen-ah), non un disordine (lo-tohu) creò (bera-ah), per abitarla (la-shebet) la plasmò (yetsar-ah)». In tale versetto oltre a “bara” compare denotante l’esercizio poietico di Dio il verbo “itsar”, il quale esplicita il modello dell’artigiano nell’immagine demiurgica, ribadita con evidenza in Is 42,5 che informa circa «lo El (ha-El) YHWH… che dà la sua impronta (roqa) alla terra e ai suoi prodotti (ha-arets ve-tsetsaey-ha)». E tutto emerge da una sottrazione dall’acqua la quale celava quelle potenzialità portate alla luce. Si nota nella cosmologia giudaica un senso di ordinamento gerarchico “alto/basso”.
Al vertice di tutto sta Dio (“l’Altissimo”, Elyon), quindi il resto a scendere sino alla «terra», che il Creatore «ha appeso… sopra un’assenza di cose (Gb 26,7)». Fino al completamento della volta celeste (vv. 14-18) l’architettura concettuale di quanto narrato è ripresa dal sistema culturale venuto dall’Egitto. Nella mitologia egizia la suprema primaria non generata divinità (causa sui), senz’eguali ed eterna, è Amon (l’invisibile).
Il suo tratto demiurgico lo qualifica come Amon Ra, dove Ra è l’immagine del sole, stella che funge da spunto nell’ideazione di una cosmogonia da una dimensione di avvolgente oscurità in partenza, cui presiede la dea Neith di cui Ra (il sole concreto, regolatore del mondo fisico, distinto dal metasensibile Amon, un sole metafisico) era considerato figlio e gli enti celesti notevoli frutto del di lei operare (il sole e la luna sono i più importanti, e con gli altri immersi in una sostanza di natura liquida nella quale si muovono: tant’è che l’immagine della barca si correlava all’idea dei loro movimenti ciclici).
La semantica del nome Neith (patrona di Sais; dapprima dea della guerra, della caccia e della sapienza) la collegava al concetto di acqua, perciò fu messa a rappresentare quell’oceano di caos iniziale (Nun), abisso posto nella mancanza di luce da cui spuntò la terra non organizzata.
La volta del cielo fu ulteriormente divinizzata. Secondo la mitologia, Atum (accomunabile a Ra) diede vita a una coppia divina: Shu (dio dell’aria) e Tefnut (preposta all’umidità), da cui naquero Nut (femmina, il cielo) e Geb (maschio, la terra). La normale esistenza non poteva avere luogo poiché – si narra – i due erano così coinvolti da passione amorosa da starsene sempre legati.
Allora Atum decise di dividerli mediante Shu. Nut è immaginata, e rappresentata nell’iconografia, con le estremità dei suoi arti congiunti a Geb. Nella cosmologia degli Egizi erano previsti due settori celesti: uno ipouranico, e uno iperuranico. La divina sapienza di Amon (per un parallelo vedasi Prv 8,22-31) si ipostatizza nel portavoce Thot (patrono della comunicazione e delle scienze), tra le cui attribuzioni c’è quella di purificare le anime dei defunti versandogli dell’acqua. Amon Ra opera grazie alla parola proferita da Thot, come nel creare il cielo e la terra così in altre circostanze.
L’emanazione da parte di Amon Ra di una forza vivificante e ordinante ciò che ha prodotto, da una materia ancora priva di ordine emersa dal Nun, è diventata il dio Ptah, figlio di Neith e immagine della luce (vedasi nel Credo niceno-costantinopolitano la definizione dello Spirito Santo come Signore che dà la vita, vivificantem). Presso l’antichità egizia il serpente rappresentava la scienza medica, nonché (agatodemone) il ruolo di reggitore di Amon nel conservare il tutto, in questo caso Amon Kneph (raffigurato qui con alcune parti umane – testa, barba e gambe – e posto in rapporto collaborativo col precedente Ptah).
Se il principio maschile è costituito da un lato da Ra e Kneph, quello femminile dall’altro è assunto da Neith, non trascurando che questo secondo ancorché ipostatizzato era ritenuto all’inizio unificato col suo complementare nella figura di Amon: ciò nondimeno era considerata altresì una divinità separata originaria, come testimonia un’epigrafe nel suo tempio a Sais, e consorte di Ra in una coppia divina primordiale.
Neith è già esistente prima dei vari dei cui dà origine, pertanto assurge comunque a un compito radicale il quale può unificare, in base alla visione e allo spessore speculativo, tutti i tratti del divino sotto un profilo non rappresentato da un’immagine concreta e che parimenti carichi su di sé in maniera indifferenziata la dicotomia “maschile/femminile” nell’androginia. La misoginia e l’inferiorità del ruolo della donna non avevano basi nell’antico Egitto, al contrario dell’ebraismo: gli aspetti femminili avevano una propria nota distintiva su un piano di pari decoro (come nel caso di dei e dee). Le culture patriarcali del vicino oriente, cui si conformò larga parte dell’ebraismo, distorcendo la sua radice egizio-atonista, erano imperniate sulla figura verticistica di un dio maschile. Ciò nonostante le tangenze tra il Dio veterotestamentario e Neith sono più di una. Tale brano di Isaia (44,6 e 8) preso a riferimento le mostra: «In questo modo ha parlato YHWH re di Israele e suo redentore, a) YHWH degli eserciti (tsebaot): “b) Io sono il principio e il futuro (Aniy rishon va-Aniy acharon: i due aggettivi – di concordanza maschile – vengono usati in senso cronologico) e senza di me (u-mi-bbalada-y: letteralmente lontano-da-me) non (eyn) [esistono] elohiym [cioè messo da parte Dio non ci sarebbe un progenitore di dei]… C’è un eloah (un dio) senza di me (mi-bbalada-y)? [domanda retorica, di scontata risposta negativa, cui naturale seguito è quanto appresso] E non una roccia (ve-eyn tsur) [senza di me], Io non ho [mai] conosciuto (bal-yadaetiy) [cose del genere, le quali non siano risultato della sua attività poietica]”». YHWH ha forti connotazioni di a) divinità bellica: ad esempio in 1 Sam 17,45 dopo averlo sempre definito «YHWH degli eserciti (tsebaot)» è chiamato «Elohiym degli schieramenti di battaglia (Elohey maarkot) di Israele»; altro caso simile è Am 5,27 che dice di «YHWH il cui nome (shem-o) [è] Elohiym di eserciti (Elohey-tsebaot)». La caratteristica è espressa con vigore in Is 42,13: «YHWH come uno potente viene avanti, come un uomo di guerre (ke-iysh milchamot) fa gridare l’ardore, fa gridare, ancora fa urlare, sopra i suoi nemici si fa superiore». Tra l’altro non dobbiamo dimenticare che si ha notizia di un libro canonico del Tanak – purtroppo scomparso – e proprio dedicato alle guerre di YHWH.
Costui nell’edificare l’universo assorbe le funzioni di Amon e di conseguenza si accosta a Neith, pur rimanendo separato dal Nun, e di lei b) assume alcuni aspetti creativi: in modo speciale riguardanti 1) l’origine degli altri dei (e dei corpi celesti, soprattutto sole e luna). Egli si presenta come 2) il fondatore e il costante reggitore dell’insieme naturale e divino. Nel corso della creazione la presenza di 1) “discendenza divina” è rievocata in Gb 38,7: «Levavano grida acclamanti tutti i figli di Elohiym (kol-beney elohiym)». D’altro canto è molto eloquente il Salmo 82: «Elohiym che si alza nell’assemblea di El, dentro agli elohiym [nel consiglio degli dei] Egli decide: “Fino a quando sceglierete l’ingiustizia e a favore dei malvagi interverrete? Scegliete il povero e l’orfano, al misero e all’indigente rendete giustizia. Salvate il povero e il bisognoso, dalla mano dei malvagi fate liberare”. Loro non hanno compreso e non capiscono, nell’oscurità si conducono, sono vacillanti tutte le fondazioni della terra. Io dissi: “Voi [siete] elohiym e [siete] tutti figli di Elyon (beney Elyon kulle-kem). Tuttavia come l’adam morirete e come il primo dei capi cadrete”. Alzati Elohiym, giudica la terra, poiché tu erediterai per mezzo di tutte le genti». Non c’è un evidente motivo retorico-grammaticale il quale farebbe chiudere il discorso diretto aperto nel terzultimo periodo del brano se non quello mirante a disgiungere la mortalità dagli elohiym: ma il terzultimo periodo lega a sé nell’oratio directa pure il penultimo, per via dell’analogia dei soggetti e della sensata costruzione espositiva.
Che gli dei qui citati possano morire non stupisce perché era retaggio della forma mentis egizia che questi invecchiassero e potessero morire: pensiamo al caso eclatante di Osiride, un dio che muore e risorge (e di cui simbolicamente si mangiavano le carni). Che questi elohiym non siano giudici umani lo si desume in maniera abbastanza chiara dal paragone con l’adam (letteralmente terrestre, fatto dalla e abitante sulla terra, adamah): non avrebbe senso ricordare a “un umano”  che la sua natura è quella di “un umano”, sembra corretto sostenere che il primo termine di confronto non è un gruppo di terrestri bensì una serie di esseri divini (pena un paragone vuoto: una proposizione causale-dichiarativa – introdotta da kiy – avrebbe retto meglio un altro pensiero).
La maniera in cui Dio ha parlato in Is 44,6 («Io sono il principio e il futuro») offre lo spunto di approfondire 2) l’aspetto di personale ontologia nella sua fondazione e reggenza dell’universo tenendo presente il parallelo di Neith.
Una sua iscrizione nel tempio di Sais le faceva proferire: «Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà…». Parole che sono in veste non panteizzante riproposte in Es 3,14 nella famosa affermazione di Dio: «a) Ehyeh asher b) ehyeh». Le due voci verbali a) e b) da un punto di vista formale sono identiche, si tratta infatti di una 1a persona singolare dell’imperfetto qal, voce del verbo “essere”.
Sappiamo che il modo imperfetto rende un’azione perdurante, di cui intuire la collocazione temporale (passata, presente o futura) è compito di chi legge o ascolta. Se pensassimo che a) e b) siano sotto questo profilo sostanziale di nuovo identiche sosterremmo di trovarci di fronte a un’espressione tautologica dato che a)=b). Ma in detta circostanza l’affermazione non direbbe niente neanche da una prospettiva ontologica perché Dio asserirebbe di essere identico a sé stesso, cosa comune a tutti gli enti. Nel momento in cui imbocchiamo un’altra strada di lettura e ipotizziamo che a) e b) siano uguali, ma non identiche nel significato, guadagniamo una chiave interpretativa. Il perdurare di a) è in atto mentre Dio parla e possiamo volgerlo in italiano con un presente indicativo: «Io sono…».
Il perdurare di b) dunque ha due sbocchi i quali sembrano entrambi validi verso il passato e verso il futuro: «… Io ero e sarò». Potremmo allora tradurre: «Io sono Chi Io ero e sarò». Dio pare aver esplicitato una nozione della sua teologia: Egli – come Neith – è la costante nel divenire, la necessità alla base della contingenza. I reperti di Kuntillet Ajrud, che provano un possibile culto popolare di YHWH unito in coppia alla compagna Asherah, consentirebbero di pensare che il ruolo e i compiti di Neith fossero stati assunti, nelle credenze di quel basso livello sociale, appunto da lei poiché dalla civiltà ugaritica proveniva una tradizione che legava una signoria di Asherah alle acque marine e che la elevava al rango di primitiva madre degli dei. La teologia giudaica ufficiale volle invece imporre la monolatria di YHWH, il quale su quest’altro piano di suoi seguaci venne a inglobare la figura di “Asherah/Neith”.
Non è da escludere che l’unione a YHWH di una paredra possa essere stata forse agevolata da un ipotizzabile processo di dissociazione degli attributi femminili dal paradigma di ente supremo che i teologi ebrei ereditarono in primis dalla cultura egizia e che tale archetipo fosse di natura androgina.
L’essere androgino di Aton sottolineerebbe la caratteristica di un certo divino di potersi presentare uno e al tempo stesso plurimo attraverso le sue emanazioni: né antropomorfo né teriomorfo, rappresentato dal disco solare (simbolo di chi offre sostegno all’esistenza grazie ai raggi solari), restando inconoscibile sebbene colto nella luce (la quale esclude qualsiasi altra rielaborazione figurativa).


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