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sabato 11 ottobre 2014

IL SIMBOLISMO ESISTENZIALE DI FRIDA KAHLO

di DANILO CARUSO

La sensuale artista Frida Kahlo (1907-1954) nacque in Messico al tempo del cambio sociale rivoluzionario antiborghese. Donna di indole energica, sposò – due volte, la prima nel ’29 – il famoso muralista Diego Rivera (1886-1957), un comunista in auge nel panorama culturale di quel Paese latinoamericano (e che poi aiuterà Trotzkij in fuga). Le vicende biografiche di lei e della futura coppia (la colomba e l’elefante, li soprannominò la contrariata cattolica madre della pittrice), alimentate da dolorosi passaggi, hanno elevato la Khalo a emblema di tenace vitalità. È possibile interpretare l’opera pittorica fridiana usufruendo di strumenti analitici provenienti da letteratura e psicologia. Negli elaborati di Frida ci si imbatte – di più nel cosiddetto “diario” (se escludiamo le lettere e altri testi di carattere esclusivamente verbale) – nella presenza di parole le quali entrano in simbiosi con la rappresentazione, ma si tratta sempre di un’immagine complessiva di alta qualità lirica. In seguito al molto traumatico scontro stradale che la coinvolse la giovane Kahlo (che voleva fare il medico, e che mostrava già interesse alla “vita”) comprese l’opportunità, prospettatale dal padre fotografo, di esprimere, in potenti figurazioni, l’universo della sua interiorità provata. Per Frida la pittura costituisce la scelta di un linguaggio immediato agli occhi degli spettatori (un linguaggio comunque non semplicistico), una forma semiotica tra le basilari della Civiltà occidentale (la cui idea dell’essere-delle-cose si lega al “visto”). Definirla una “poetessa dell’immagine” è un esito cui sono stato indotto da una serie di considerazioni. L’accostamento di un paio di miei componimenti poetici (scritti intorno al 2004, quando ancora non mi interessavo di lei) con un suo dipinto (“Ciò che l’acqua mi ha dato”, datato 1938) e una sua annotazione lirica dal diario (dedicata al marito) ha fatto maturare un particolare percorso di lettura estetica all’interno del quale ho potuto cogliere delle tangenze concettuali.


De anima (versi endecasillabi sciolti)

L’anima mia è come un lago:
molte sono le cose galleggiantevi,
il cielo è la maglia di un ragno:
il suo fondo rimane insondato.


Nel quadro domina la presenza dell’acqua, metafora figurativa di un’arché psichica (elemento distintivo del disordine originario adottato da cosmogonie antiche). Il significato dell’opera è analogo a quello dei miei versi. La vasca da bagno costituisce il bacino del lago su cui galleggiano i vissuti. Se ne vedono alcuni importanti puntualizzati che riguardano le sfere personale (eros e thanatos), familiare, mondana; colpisce però la “realtà” concreta del piede destro per via del deficit rimastole a causa di una – in apparenza – poliomielite infantile (in età adulta nel 1953 metà della gamba le sarà amputata). Di sicuro lo stile apparirà – nel caso di tutta la produzione kahloista – quello del Surrealismo teorizzato da Breton, il quale apprezzò la pittrice messicana includendola nel novero degli artisti del “surreale”. Ma egli commetteva l’errore, spiegato dalla stessa Frida, di non intuire il senso interiore e reale di un fare arte che del sogno aveva solo l’abito, e per giunta di forte spessore psicologico, dato il legame nella fase elaborativa dei contenuti con le vicissitudini. I problemi alla spina dorsale, di cui testimonianza vivissima “La colonna spezzata” del ’44, si acutizzeranno nell’ultimo decennio di vita: in detto dipinto ella utilizzò il simbolo di una colonna ionica danneggiata. L’autenticità della Kahlo, eccellente di per sé (a suo dire i surrealisti conosciuti a Parigi nel ’39 erano sgradevoli), rimane infatti insondata sul fondo della vasca (dove lei si trova). La sua maglia del ragno è l’attrattiva mediante la quale ha intrappolato gli ammiratori di ogni epoca.


Estasi (versi liberi)

Magia di un momento,
fusione, ricongiungimento cosmico,
contemplazione reciproca,
chenosi di animi,
incrocio di libido.
Unus alterae,
altera uni.
E duobus unum.


Dal “diario” di Frida Kahlo

Diego, principio
Diego, constructor
Diego, mi niño
Diego, mi novio
Diego, pintor
Diego, mi amante
Diego, mi esposo
Diego, mi amigo
Diego, mi padre
Diego, mi madre
Diego, mi hijo
Diego, yo
Diego, universo
Diversidad en la unidad

¿Por qué lo llamo Mi Diego? Nunca fue ni será mío. Es de él mismo.


I temi strutturali della lirica al marito muralista li ho in ugual maniera ritrovati nella mia poesia: il procedere della fusione nel componimento fridiano ha principio con Diego, e continua con una sequenza di determinazioni di tale “sostanza” a guisa di categorie essenziali del suo essere, sequenza culminante nel ricongiungimento cosmico dei versi «Diego, yo / Diego, universo». Un’atmosfera metafisica e mistica circonda tutta questa notazione poetica, la quale proietta in modo simile al mio verseggiare, alla volta, ma non solo, di un piano di spiritualità filosofica appartenuta al Romanticismo tedesco di Hegel e Schopenhauer: vedasi l’unione di opposti in un terzo attraverso una sintesi e la fuga dall’empirico dell’io che si fa io puro contemplante (non dimentichiamo che il padre di Frida era un Ebreo ungherese cresciuto in Germania). La a) «Diversidad» b) «en la unidad» è argomento molto complesso rivisto nei miei versi a) «Unus alterae, altera uni» e b) «E duobus unum». Qui essi mostrano soprattutto un fondo platonico rievocante il mito dell’androgino narrato da Aristofane nel “Simposio”. Nel fascino esercitato dalla Kahlo risalta prepotentemente la grazia androgina. Durante il suo vivere – come reazione alla condotta fedifraga del marito – ella intrattenne rapporti amorosi con uomini e donne (tra costoro il profugo Trotzkij, teorico della rivolta proletaria globale, braccato dai sicari di Stalin). Questo complesso di fattori, a mio avviso, indica in Saffo un’equivalente estetico – fatte salve tutte le distanze individuali, culturali e storiche – dell’artista messicana. I metri artistici saffico e fridiano sono parificabili: le esperienze e l’esistenza sono al centro della loro weiliana attenzione, entrambe rappresentano il proprio sentire. L’“Autoritratto con i capelli tagliati” (1940), risalente al temporaneo periodo in cui la Kahlo si separò da Rivera, esprime ad esempio la medesima matrice di disagio del frammento 31 (edizione Voigt) che fa percepire nella sua fisiologia il turbamento saffico. Il lesbismo (un cui frutto è “Due nudi nel bosco” del ’51) la accomuna ancora alla “decima Musa”, e la Casa azul, nella quale abitò, si trasforma in una sorta di tiaso (vi passarono i citati Breton e Trotzkij). Addirittura lei stessa richiama Saffo, nel ’49 in un testo critico su Diego, affermando che costui avrebbe ottenuto una lieta ospitalità presso l’isola “lesbica”. L’attribuzione a una tipologia di simbolismo esistenziale di tutta l’opera kahloista non pare dunque arbitraria. Ha invece esagerato tanto chi ha innalzato Frida a un dio, e ne ha fondato persino un culto religioso. Si tratta di un’assurdità la quale non ha niente a che spartire con un approccio serio e ragionevole alla creatività, al pensiero e alla biografia di questa pittrice: l’orientamento politico marxista (negli anni Venti il marito la raffigurò in camicia rossa che dà fucili al proletariato sul murale “Distribuzione delle armi”) e quello religioso ateo-panteista sarebbero stati validi motivi di rifiuto di una cosa del genere. Sembra chiaro in tale fatto ne abbiano distorto la figura, difficile parlare di fraintendimento. La morte di Frida Kahlo si vela del sospetto di un’eutanasia. Il tema della sofferenza si rivela centrale, ma non esclusivo, nei suoi quadri. La sua esistenza fu la più dinamica possibile nonostante vari aborti, una trentina di interventi chirurgici (conseguenza dell’incidente quand’era diciottenne) e l’ulteriore ipotesi di una malattia congenita. L’ultimo lavoro, completato in prossimità della scomparsa, contiene scritto l’emblematico titolo: “VIVA LA VIDA”. Oggi lei appare inoltre un’icona del femminismo (a tal proposito si veda “Qualche piccola punzecchiatura”, datato 1935, ispirato da un omicidio), tuttavia sarebbe stata la prima a non gradire l’essere deificata. Si è d’altro canto adoperata, accanto all’individuale catarsi dal malessere (grazie alla sublimazione artistica, di cui exemplum, dopo un penoso aborto spontaneo, “Henry Ford Hospital” del ’32) per un progetto apologetico del suo ego che definirei di narcisismo scientifico. Dipingendo la propria grande personalità in non pochi, intensi e significativi autoritratti, la Kahlo ha fatto giustizia nei confronti dei suoi problemi (uno fu il marito che la tradì anche con una sorella). Di questi “Le due Frida” (1939), dove ella mette in campo uno sdoppiamento interiore, è tra i più particolari e belli. Se guardiamo quella foto in cui lei sta alla sinistra del quadro, notiamo un movimento dialettico hegeliano di tesi-antitesi-sintesi; da destra: la Frida amata, la Frida lasciata da Rivera e la Frida reale (provenuta dall’esperienza del divorzio). La scissione, adottante due modelli di abbigliarsi (uno tipico messicano, uno europeo), ne rievoca altresì l’origine mista: il nonno paterno era ungherese, quello materno indio (più dettagliata la genealogia nel precedente “I miei nonni, i miei genitori e io”). Il suo narcisismo non ha un valore negativo; forse qualificare la voglia di vivere e di emergere in questa maniera sarà improprio, però nella circostanza della Khalo la dimensione estetica risulta visibile, e la sua positività risiede nella vocazione intellettuale. Spregevole quel narcisismo, utopistico, di chi sul vuoto costruisce velleità disarmate: il Narciso del mito era bello, e per i Greci il bello era pure una virtù. Il bello fridiano è una virtù nell’arte e nella vita. Nella produzione artistica non esiste il brutto, chi asserisce brutto un elaborato si contraddice: o quella non è un’opera d’arte (e perciò non è capace di condurci al bello) o chi giudica rimane vincolato al criterio del “piacevole” senza elevarsi al comprendere l’artisticità e il bello. Oltre alle mie due piccole tangenze poetiche col mondo di Frida, piacevole la scoperta che, come me, indulgesse a giochi verbali (lei nelle lettere) impastando lingue diverse: senza dubbio un sintomo di vivacità mentale. La stessa che la portò a formarsi una coscienza politica e a militare nelle file comuniste. Il suo desiderio di personale sanità e di benessere universale, in un cosmo che Simone Weil voleva non sistematicamente pervaso dalla Provvidenza divina (ma vittima dell’intrinseco meccanicismo), si trasferisce, con quello slancio che la contemporanea filosofa francese vedeva nella paritetica forza evocatrice dell’ideale comunicato al prodotto artistico, in uno degli ultimi dipinti dal provocatorio titolo, quasi profetico, pieno dell’umano calore che ha l’immagine: “Il marxismo guarirà gli infermi”. Alle spalle un volto di Marx, lei gettate le stampelle – in un anticipo di quella che vogliamo credere vera beatitudine – si regge in piedi da sola.