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lunedì 20 giugno 2016

LA MACCHINA DEL CONSENSO NEL “MONDO NUOVO”

di DANILO CARUSO

Il saggio da me scritto e intitolato “Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley” adotta un’impostazione analitica applicante una chiave di lettura weberiana nello studio del rapporto intercorrente fra la realtà del capitalismo e il “Brave New World” (sua immaginaria, ma non troppo, possibile alterazione).
Viene messo in risalto come l’irrazionalismo religioso in tale campo, sottostante nella valutazione di Weber agli effetti della dimensione sociale del capitalismo, potrebbe essere movente ulteriore di un inquietante strano “Mondo Nuovo”. Nel 1933, a un anno dalla pubblicazione, il romanzo distopico huxleyano uscì in Italia, allora governata dal fascismo.
Dalla mia opera di critica sociologico-letteraria ripropongo quelle parti che riguardano la meccanica di creazione del distopico welfare; altri temi possono essere approfonditi leggendo il saggio.
Il cap. I di “Brave New World” espone il funzionamento della genetica macchina della predestinazione umana. Gli embrioni, prodotti in numero eccezionale in laboratorio, dopo un’artificiale gestazione seguita con attenta minuzia, diverranno individui con le predisposizioni alle funzioni per le quali hanno subito specifici trattamenti differenziati in categorie. I gruppi generali sono cinque, che Huxley denomina con le prime lettere dell’alfabeto greco. Una concezione di questo tipo, volente la realtà preordinata da una forza superiore, proviene dalla visione protestante dell’esistenza: ogni uomo, già nato, ha un suo futuro, il quale lui ignora, ma che bello o brutto dovrà in qualunque caso accettare. Da tale idea, la quale pone il segno della salvazione eterna nel successo pubblico individuale, Weber trattando dell’etica calvinistica ha chiarito la genesi della dinamica attivistica nelle società animate dal capitalismo (per il quale l’arricchirsi diviene una conseguenza dell’elezione al paradiso). Alla chiusura di questo cap. I il direttore delle Unità generative e Centro per il condizionamento («DHC») sostiene un pensiero che è il dogma da cui è partito l’attivismo protestante e capitalista: «Il segreto della felicità e della virtù sta nel trovare piacevole quanto tu devi fare. Tutto il condizionare punta a quello: far piacere alla gente il suo inevitabile destino sociale».
E Perciò non stupisce che la scienza nel Mondo Nuovo di Huxley pretenderebbe di offrire persone pronte alle loro mansioni entro pochi anni dalla loro esistenza: è l’efficienza produttiva che lo chiede. E in un regime di tal genere, il cui motto è COMUNITÀ IDENTITÀ STABILITÀ, la genetica sta attenta a dare vita a non molti individui intelligenti e riflessivi: solo diffuse ottusità e incapacità di comprensione obiettiva possono tenere in piedi un simile sistema gerarchico. Allora la conoscenza, nel senso più nobile del termine, diventa pericolosa.
Il cap. II del romanzo di Huxley, che si apre con un esempio di «condizionamento neopavloviano» sui neonati, allo scopo di far comprendere pure al lettore l’efficacia e l’importanza, agli occhi di un simile apparato altamente condizionatore, dell’infusione di steccati mentali a scapito dell’autonomia personale, fornisce diversi indizi di critica al modello capitalistico.
Si è ormai compreso, e lo ribadisce la riflessione di uno studente, portato con altri compagni in visita all’Unità di generazione e centro di condizionamento di Londra, il modo in cui lo studio e la lettura possano destabilizzare tale regime di potere, se non crearne le basi per la caduta, però quando Huxley puntualizza che «ragioni di alta politica economica» hanno la preminenza, capiamo ancor meglio che lo scrittore sta puntando il dito contro un certo meccanismo di produzione finalizzato al consumo.
Allorché fa dire al DHC che si inculcano nelle teste tendenze mirate a consumi che non siano offerti gratis, quest’ultimo (che all’inizio del cap. III definirà «follia» le mancate agevolazioni all’attività di consumazione di beni e servizi) esplicita il primo punto del programma operativo capitalistico: produrre al fine di vendere di continuo in un circuito commerciale avente scopi di lucro.
Ed è altresì chiaro come detta ideologia provocando sperequazioni e discriminazioni abbia l’obiettivo, per mantenersi al potere, di indebolire il potere intellettuale, del singolo e delle masse nel complesso.
Chiunque dovrebbe accettare il suo posto nella società giacché predestinatovi (o dalla religiosità protestante, o dalla genetica del Brave New World, trasposizione e attuazione scientifica, capitalistica e distopica, della prima). Viceversa chi propugnasse un sistema più giusto rischierebbe di mettere in discussione una qualsiasi pseudodemocrazia plutocratica.
Dunque tutti devono rimanere intontiti, attraverso le migliori tecniche, fin dalla nascita e abituarsi a comportamenti condizionati, funzionali alla sopravvivenza di questo apparato. Nel Mondo Nuovo si pratica da subito, sui bambini di pochi mesi, l’infusione di una «istruzione morale, la quale mai dovrebbe, in alcuna circostanza essere razionale», grazie all’«ipnopedia» («insegnamento durante il sonno») volta a creare non solo una precisa «coscienza di classe (class consciousness)». Tale consapevolezza, da accettarsi in qualità di ineluttabile destino, si fa portavoce di quel dogma capitalistico e protestante di cui in precedenza parlato. Quanti sono i presuntuosi, che godono almeno di un piccolo benessere nella società liberal-capitalistica, di scadente e approssimativa acculturazione, cui navigano nella mente i sollevanti ipnopedici pensieri inculcati ai bimbi del New World: gli «α… lavorano molto più duramente rispetto a quello che facciamo noi, perché sono intelligenti in modo così spaventoso. Io sono davvero molto contento di essere un β, giacché non lavoro così duramente. E inoltre noi siamo molto migliori dei γ e dei δ. I γ sono stupidi»; «gli ε sono ancora peggiori. Loro sono troppo stupidi per avere la capacità di leggere o scrivere».
Ogni soggetto di ciascuna classe è stato condizionato in maniera tale da sentirsi soddisfatto della sua collocazione e da rifiutare l’ipotesi di un cambiamento: a ognuno è impossibile avere il punto di vista o desiderare il destino di un’altra casta. La tecnica dell’ipnopedia è una strategia di messaggi subliminali, la quale, nel modo portato ad esempio verso la fine del cap. III, promuove l’acquisizione di beni nuovi piuttosto che riparare quelli usati, o invoglia a fare precisi consumi: in generale quando il soggetto ritroverà una dottrinaria materia concettuale, la prenderà «non soltanto per vera, ma per assiomatica, ovvia, completamente indiscutibile». L’ipnopedia perfeziona il lavoro iniziato da altri metodi di condizionamento i quali si avvalgono di semplici esperienze associative, «ma il condizionare senza parole è rozzo e di non alto pregio, non può far comprendere le distinzioni più raffinate, non può inculcare i più complessi corsi di comportamento. Perciò devono esserci le parole, tuttavia parole senza ragionare. In breve l’ipnopedia», a detta del DHC. Tale tecnica che prefigura una determinata risposta – automatica e fuori della riflessione – a una certa sollecitazione, fa pensare a quei vecchi manuali di catechismo religioso costruiti di domande e risposte da imparare nella suggestione piuttosto che nella lucidità di comprensione.
Il che ha l’analoga dinamica della pubblicità commerciale, la quale tende al di qua della coscienza a ottenere un auspicato comportamento sulla falsa riga dei neonati descritti da Huxley; dice il DHC: «fino a che la somma delle suggestioni sia la mente del bambino. E non solo la forma mentis infantile. Sia pure quella dell’adulto, lungo l’intera sua esistenza. La mente che giudica, desidera e decide, composta di queste suggestioni. Ma tutte queste suggestioni sono le nostre suggestioni!».
Nel cap. III del romanzo Huxley continua la ricognizione dentro i meccanismi di questa nuova struttura, la quale comincia a datare la sua epoca dalla figura di Henry Ford (1863-1947). In particolare dall’anno di produzione del modello automobilistico Ford T (1908).
Dopo che l’umanità era entrata in una crisi irreversibile a causa di una guerra (141-150 d.F.) il pianeta Terra cadde sotto il controllo di un macrostato suddiviso i dieci sovrintendenze: una di esse è l’Europa occidentale (a Londra si svolgono nel 632 d.F. gran parte delle vicende del racconto).
Il sovrintendente di quel settore terrestre, che rivolge una sua lezione agli studenti in visita al Centro per il condizionamento, spiega ai suoi uditori il vangelo del Mondo Nuovo partendo da «quel bel e ispirato detto del Nostro Ford: “La storia è una raccolta di parole vuote”». L’istruzione è un male perché ruba tempo ai consumi, le persone istruite sono pericolose nei confronti del sistema, e fu un errore reprimere la loro azione usando la forza: meglio applicare gli incruenti moderni metodi scientifici («Governare è un affare di riunioni, non di scontri. Voi governate coi cervelli stando seduti, mai coi pugni»).
Cosicché dall’utilizzo di tecniche di condizionamento intellettuale alla modalità di riproduzione umana non vivipara (ectogenesi), emerge la maniera in cui il capitalismo abbia portato a compimento le sue inclinazioni fondate su germi di irrazionalità.
La storia e i beni culturali antecedenti il 150 d.F. sono stati annientati allo scopo di non fornire motivi di turbamento: «tali sono i vantaggi di un’educazione realmente scientifica».
Fra il vecchio universo capitalistico e il Brave New World esiste un rapporto contemplante nel secondo l’elevamento della “gabbia” di cui parlava Weber al grado massimo di secolarizzazione.
Per Weber il “mantello” di cura che avvolge un protestante nella ricerca dell’arricchimento in funzione di segno esperibile dell’avvenuta (ma a priori disposta) salvazione si converte in una “gabbia”, la quale si sgancia e abbandona i suoi significati e le prospettive di fede durante il cammino.
Il messaggio evangelico costituisce un inno dell’amore agapico, e nel New World è comandamento ipnopedico che «ciascuno appartiene al prossimo (every one belongs to every one else)», cioè debba donarsi in modo spontaneo a beneficio del prossimo. Tale principio, maturato privo di guida razionale, ha comportato la distruzione delle rimanenti sfumature concettuali dell’amore: storgé, eros, filía.
È questo uno dei motivi di scomparsa della famiglia e della generazione vivipara. La famiglia è un luogo di apprendimento che his fordship scredita specialmente riguardo alle casistiche di povertà mettendo l’accento su «terribili pericoli della vita in famiglia. Il mondo era… pieno di madri, quindi di ogni genere di perversione dal sadismo alla castità». Ritorna uno degli aspetti più negativi della tradizione giudaico-cristiana: la misoginia.
Gesù era stato concepito grazie all’opera dello Spirito Santo, e la sessualità in detta tradizione non ha mai avuto una collocazione serena. Il terrore della porta del diavolo fa apprezzare al sovrintendente che «alle Trobriand il concepimento era un’occupazione di spiriti ancestrali; nessuno aveva mai udito di un padre».
Conclusione nevrotica: tutti devono nascere mediante l’intervento dello Spirito Santo (interpretato dalla scienza genetica). «Famiglia, madre… monogamia, romanticismo» devono scomparire perché gabbie pulsionali costituenti sproni a rifiutare «le proibizioni che loro non erano condizionati a rispettare… E sentendo in maniera intensa, il che era un di più, in solitudine, in un isolamento irrimediabilmente individuale, come potevano essere stabili?».
 Ciò che è materia di sollecitazione individuale ha subito il destino di rientrare in un rigoroso controllo. Il soggetto non può (e non deve) spingersi oltre una conveniente soglia: «non esiste civiltà senza stabilità sociale. Non esiste stabilità sociale senza stabilità personale». L’apparato pretende e genera «uomini obbedienti, stabili nell’appagamento». Giacché contenere il soddisfacimento crea una sacca emotiva controproducente che potrebbe sprigionare le sue energie a danno del regime dominante: «il sentimento si nasconde in quell’intervallo di tempo tra il desiderio e la sua consumazione».
Venuta a mancare la dimensione della storgé a vantaggio dell’agápe (qui in forte modo distorta), resta il prendere atto dell’identica cosa a carico dell’eros, però realizzatasi in modalità paradossale nel contorno logico, ma in interiore ben calibrata in direzione del fine che si voleva conseguire.
Allo scopo di depotenziare l’eros, lo si è generalizzato: non solo in una disdicevole programmatica pratica di promiscuità fra adulti (la quale dovrebbe apparire una soddisfazione paradisiaca), ma altresì nella riprovevole promozione del «gioco erotico tra bambini (erotic play between children)», che il DHC giudica tutt’altro che «abnormal» e «immoral». Comunque Huxley nella sua narrazione distopica non ammette la liceità della pedofilia neanche nella peggiore distorsione letteraria della realtà.
Trasformare la sessualità in una cosa scontata, sprovvista di speciale valore, sin da piccoli e tra soggetti adulti, essendo impossibile sradicarla, raggiunge la meta di disinnescare un pericoloso ordigno nei confronti della “stabilità”. Nelle parole del sovrintendente, Ford («our Ford») assurge a «nostro Freud (our Freud)»: il SUPER EGO dello «Stato mondiale (World State)» ha letteralmente ipnotizzato e drogato l’ES.
È un nuovo paradossale, irrazionale ragionamento, però capitalistico e protestante, nei riguardi di un Cristianesimo non attivista («l’etica e la filosofia del sotto-consumo»): all’oppio della religione cristiana si sostituì dal 184 d.F. la somministrazione di una vera droga (legale), sostitutiva dell’azione catechetica e sacramentaria, chiamata «soma». In “Brave New World Revisited” Huxley puntualizza: «Il soma era la religione popolare. Allo stesso modo della religione, la droga aveva il potere di consolare e compensare, suscitava visioni di un altro, migliore mondo, offriva speranza, fortificava la fede e promuoveva l’agápe (charity)».
Ormai a tutti basta il soma («la droga perfetta… euforica, narcotica, piacevolmente allucinante») e un corpo mantenuto giovane dalla scienza (il corpo al massimo di uno a 30 anni sino all’età di 60).
In vista di tale obiettivo si fa pure ricorso alla «trasfusione del sangue giovane»: detta prassi origina la sua suggestione dall’Antico Testamento, dove si sostiene che la sede della forza vitale sia nel sangue (il cosmismo sovietico prese la cosa sul serio, e Aleksandr Bogdanov, un fautore delle trasfusioni miranti a ottenere l’immortalità, ne trattò nel suo romanzo “La stella rossa”). Il sovrintendente concluse quella sua predica agli studenti così: «Adesso… gli uomini vecchi lavorano, fanno sesso, non hanno tempo a disposizione lontano dal piacere, non un attimo per sedersi o pensare, o semmai per qualche sfortunato caso una tale crepa di tempo si aprisse nella solida sostanza delle loro distrazioni, c’è sempre il soma»; vale a dire che il paradiso (dell’ottundimento) è sceso in terra rendendo ognuno (pseudo)beato.


LA SESSUALITÀ REPRESSA IN “1984”

di DANILO CARUSO

Nel mio saggio “Il Medioevo futuro di George Orwell” costruisco un impianto d’analisi congiungendo l’idea weiliana sulla genesi e la prosecuzione dei modelli totalitari in Occidente a “1984”, capolavoro orwelliano su una non auspicabile società futura ricalcante il carcere panottico di Bentham.
La tesi di fondo, la quale non intrappola il romanzo in una rivisitazione, più o meno, del passato Medioevo cattolico, poiché il pensiero di Orwell parla per l’avvenire (e quindi con Simone Weil rafforza quell’avvertimento sulla possibilità dei totalitarismi), si risolve in una paradossale apparente conclusione: e cioè che “1984”, mutatis formis mutandis nella contingenza narrativa, possa equivalere a un “1384”, o a un orwelliano “2084” secondo la programmatica intenzione di monito dell’autore inglese (giusta e riconosciuta ispiratrice peraltro del testo).
Qui di seguito, frutto di un’operazione di estrazione dal mio lavoro critico citato, presento le parti inerenti al tema della sessualità in Oceania (uno dei tre Stati dell’immaginario futuro negativo orwelliano, dove il potere è in mano a una rigida e repressiva organizzazione partitica); a chi volesse conoscere ulteriori aspetti delle mie analisi storico-letterarie e approfondire alcuni concetti prospetto la lettura integrale di suddetto mio studio.
Il protagonista del romanzo, il modesto e semplice Winston Smith, il quale entrerà in intimità con la sconosciuta Giulia (Julia), è un impiegato del “ministero della verità” (dicastero preposto a scuola e mass-media, arti e svaghi).
Ve ne sono altri tre: “dell’amore”, “dell’abbondanza”, “della pace”; che si occupano di rispetto dell’ordine costituito, economia, difesa e guerra.
L’istigazione all’odio fine a intrappolare e irrigidire il pensiero suscita in Winston, nelle prime pagine del racconto, seppur insospettito e dubbioso nei confronti della reale bontà del Big Brother, una tendenza a cercare bersagli, vari in sequenza, terminanti nell’ancora non conosciuta Giulia: «Vivide e magnifiche allucinazioni balenavano attraverso la sua mente. La colpirebbe a morte con un manganello in caucciù. La legherebbe a un palo e la ucciderebbe piena di frecce scagliate come san Sebastiano. La violenterebbe e taglierebbe la sua gola al momento culminante. Meglio di prima, inoltre, comprese che il motivo di ciò era che lui la odiasse. La odiava perché era giovane e bella e come un’asessuata [Giulia è iscritta alla “Lega giovanile antisesso”; n.d.r.], giacché vorrebbe andare a letto con lei e mai lo farebbe, poiché attorno alla sua piacevole e flessuosa vita, la quale sembrava chiederti di abbracciarla, là era solo l’odiosa scarlatta fascia [della “Junior Anti-Sex League; n.d.r.”], aggressivo simbolo di castità». Riguardo a questo è da mettere in evidenza in parallelo l’attitudine sessuofobica della Chiesa medievale, una disposizione misogina che portò ad atti repressivi e all’insensata, irrazionale e nevrotica caccia alla streghe. Per san Tommaso d’Aquino la donna sarebbe stata prodotta da Dio in un insieme naturale completo di cui non era degna, e perciò unicamente in un secondo tempo per bisogno. Quanto pensa Winston è frutto della repressione sessuale e di un paritetico sprone all’odio il quale satura grazie a un contenuto negativo la psiche e spinge a nevrosi compulsive e a comportamenti disturbati.
L’area d’intervento della repressione psichica condotta dalla dirigenza oceaniana allargandosi all’ambito sessuale mostra inequivocabili tangenze con dottrine cattoliche. Per le donne, in specie quelle del Partito, profumarsi e truccarsi sono atti indecorosi e disdicevoli (già Tertulliano rifletteva antifemminismo paolino nel suo “De cultu feminarum”).
La Junior Anti-Sex League «difendeva il completo celibato per ambo i sessi [uno degli ideali di perfezione auspicati dal Cattolicesimo, imposto a quasi tutti i religiosi; n.d.r]. Ogni bambino doveva essere generato dall’inseminazione artificiale [come fosse lo Spirito Santo con la Vergine Maria; n.d.r]… e cresciuto nelle istituzioni pubbliche… un vero love affair era un evento pressoché impensabile. Le donne erano tutte simili. La castità era infusa in loro come prassi di lealtà al Partito [uguale devozione alla Chiesa non è esclusiva di suore; n.d.r]… il naturale sentimento era stato rimosso da loro». A chi sceglieva un percorso diverso da quello monastico si prospettava un agostiniano sacramento coniugale: «L’unico scopo riconosciuto del matrimonio era generare bambini per il Partito. Il congresso carnale era da ritenersi di secondaria importanza un poco nauseante».
La sessuofobia dell’Ingsoc è affine a quella cattolica: «L’obiettivo del Partito non era soltanto prevenire la costituzione di una fedeltà di coppia che non è facile controllare [per la teologia ministri del sacramento matrimoniale sono gli sposi non il sacerdote; n.d.r.]. Il suo reale non dichiarato proposito era rimuovere tutto il piacere dell’actus coeundi. Più dell’amore il nemico era l’erotismo, dentro e fuori della vita coniugale… Il Partito stava tentando di uccidere l’istinto sessuale [demolire l’ES a favore di quel SUPER EGO rappresentato dal Fratello Maggiore, un super brother; n.d.r], o se non potesse farlo, allora distorcerlo e sporcarlo… Il coitus, compiuto con successo, era ribellione. Il desiderio era thoughtcrime».
Ritorna la minaccia del peccato; la concupiscenza sessuale è un tipo di thoughtcrime: la mulier, tota in utero, può simboleggiare un inviato satanico che libera la libido compressa, e di conseguenza svela all’uomo la duplice sfaccettatura di sé (intellettuale e fisiologica). Sebbene il meretricio in Oceania sia un’attività illecita, è furtivamente ammissibile nella misura in cui alleggerisca la carica libidica (non c’è stata una legge Merlin la quale ha chiuso i bordelli dello Stato pontificio). La promiscuità fra uomini e donne del Partito è condannata, al pari del divorzio (con l’eccezione dell’unione matrimoniale senza prole). L’etica in materia per un maschio oceaniano, soprattutto se un dirigente politico, è molto agostiniana: «La sua vita sessuale… era per intero regolata da due parole del newspeak SEXCRIME (immoralità sessuale) e GOODSEX (castità). Il concetto di SEXCRIME copriva ogni misfatto sessuale. Copriva la fornicazione, l’adulterio, l’omosessualità, e le altre perversioni, e in aggiunta la normale copula carnale praticata come fine in sé. Non c’era bisogno di enumerarli separatamente, poiché ognuno era allo stesso modo causa di colpevolezza, e, per principio tutti punibili con la morte… Lui sapeva quanto si voleva enunciare con GOODSEX – il che è dire, normali rapporti sessuali tra uomo e moglie, per l’esclusivo scopo di generare bambini, e senza piacere fisico da parte della donna [la frigidità è una virtù; n.d.r.]: tutto il resto era SEXCRIME». Ma cercare di sopprimere la libido porta solo a una sua deviazione: naturam expellas furca, tamen usque recurret.
Ciò la converte in aggressività, la quale è indirizzata verso gli avversari interni e non dell’Oceania e della Chiesa. Entrambe sono d’accordo sui migliori ruoli femminili: la santa e l’asessuata, la madre.
E su quelli da combattere: la strega e la sovversiva, la prostituta. A fronte di schemi così pervasivi esistono tuttavia zone d’ombra. All’inizio del cap. VII della parte I di “1984” Winston (che è un componente esterno del Partito) annota sul diario: «Se c’è speranza [«di distruggere il Partito»; n.d.r.] essa sta nei proles [in newspeak “proletari”, “povera gente”; n.d.r.]».
Detti proles sono un’anomalia alla dottrina dominante e si trovano ai margini: «In ogni problema di principi morali gli si lasciava seguire il codice avito. Il puritanesimo sessuale del Partito non era un obbligo per loro. La promiscuità non andava punita, il divorzio era consentito». Il motivo è che costoro sono equiparati agli animali: «i proles e le bestie sono liberi».
Nella sezione II di “1984” l’eretico Winston si lega alla strega Giulia, alla “porta del diavolo (diaboli ianua; Tertulliano)”; alla quale al primo approccio sessuale chiede ricevendo l’auspicata risposta: «“Ti piace farlo? Non voglio dire se ti piaccio in parole povere io, voglio dire la cosa in se stessa?” “L’adoro.” Questo era soprattutto quanto voleva sentire. Non meramente l’amore verso una persona, ma l’istinto animale, il semplice desiderio non differenziato: quella era la forza la quale avrebbe frantumato il Partito… Ai vecchi tempi, egli pensò, un uomo guardava il corpo di una ragazza e diceva che era desiderabile, e ciò era la fine della storia. Oggigiorno però non potevi avere un amore puro o una concupiscenza [lust; n.d.r.] pura. Nessuna emozione era pura, poiché ogni cosa era mescolata con paura e odio. Il loro amplesso era stato una battaglia, il culmine una vittoria. Era un colpo scagliato all’indirizzo del Partito. Era un atto politico». Un altro brano di Orwell esprime il parere di Giulia sulla sessualità repressa (e le considerazioni di Winston): «Non era soltanto che l’istinto sessuale creava un cosmo suo proprio al di là del controllo del Partito e che se possibile era da distruggersi. Quello che era più importante era che la privazione sessuale induceva isteria, la quale era desiderabile giacché poteva trasformarsi in antipacifismo e in culto del leader. La maniera in cui la metteva era: “Quando fai l’amore stai consumando energia; e dopo ti senti felice e non ti preoccupi di niente. Loro non possono sopportare che tu ti senta così. Loro vogliono che tu sia sempre carico di energia. Tutto questo marciare su e giù, e l’acclamare e le bandiere ondeggianti sono semplicemente sesso andato in rovina. Se tu sei felice dentro di te, perché ti dovresti infervorare per il Big Brother e il Piano Triennale e i Due Minuti d’Odio e l’intero resto del loro schifo?” Ciò era vero, pensò lui. C’era un intimo diretto nesso fra castità e ortodossia politica. In quale modo potrebbero la paura, l’odio e la credulità alienata, di cui necessitava il Partito nei suoi membri, essere tenuti a un grado conveniente all’infuori di imbottigliare un potente istinto e usarlo come una forza di guida? L’impulso sessuale era pericoloso per il Partito, e il Partito ne aveva tratto vantaggio».
Tali argomenti anteponendo una visione liberale a una assolutistica in campo sociopolitico, tradotti nell’ambito religioso richiamano altresì la dialettica Cristianesimo/Paganesimo (nel quale ultimo addirittura si praticava una prostituzione al servizio della religione: una concezione agli antipodi della sessuofobia cattolica, che si impegnò a sradicare). Giulia e Winston non sono paragonabili a una prostituta e a un cliente, tutt’altro; nella loro storia sentimentale si anticipa invece la teoria marcusiana sulla repressione addizionale della libido, volta – oltre il freudiano necessario – al consolidamento in Occidente di un illiberale establishment (definito principio di prestazione), teoria esposta in “Eros e civiltà (1955)”. Pure per Marcuse accade in questo processo una deviazione libidica funzionale a mire (produttive) alienanti (e alienati sono i componenti oceaniani del Partito, espropriati nella loro psiche sotto ogni profilo): all’esterno dell’esercizio – nel livello umano migliore – dell’intelligenza e della consapevolezza non ci può essere felicità che non sia un illusorio surrogato: «L’ideologia del Partito si imponeva con molto successo su gente incapace di comprenderla, la quale sarebbe stata in grado di accettare le più flagranti violazioni dell’obiettività reale giacché mai afferrava appieno la mostruosità di quanto gli era chiesto». Winston e Giulia – «una ribelle soltanto dalla cintola in giù» le dice lui – esperiscono una via di fuga al principio di prestazione (e alla sua collegata repressione addizionale): una libido liberata li trasforma in sovversivi poiché si svincolano dalla causa deviante (la repressione addizionale) e dalla causa alienante (il principio di prestazione); una sublimazione adeguata genera benessere, che globalizzerebbe il piacere nelle sue sfaccettature esteriori connesse alla vita. L’ideologia estasiatica gemella dell’Ingsoc è la «tanatolatria (Death-Worship)» o «estinzione dell’io (Obliteration of the Self)»: nell’ottica marcusiana la pulsione antitetica al piacere viene giudicata una mortificazione, una sconfitta dell’eros che ripiega alla volta della distruzione (condotte sadiche e masochiste non sono mancate tra i personaggi cattolici). Somigliante al bello kantiano, la libido porrebbe armonia fra gli uomini e il mondo. È questo un “messaggio” proveniente dalla Grecità pagana ripreso da Winston e Giulia i quali affrontano la madre di tutti i totalitarismi occidentali reincarnatasi in Oceania, nemica della cultura – prodotto libidico – e dell’armonioso sviluppo individuale proteso alla ricerca della felicità. Nella Grecia antica lo ritroviamo nella produzione artistica, nella mitologia pertinente e nella filosofia (il “Simposio” platonico e il tiaso saffico sono exempla e veicoli); uno dei limiti della civiltà ellenica fu sì la misoginia, tuttavia ebbe basi in pregiudizi a sfondo pedagogico non in nevrosi sostanziate in religione. La Chiesa, dal canto suo, esigette il celibato sacerdotale e il voto di castità dalla quasi totalità dei religiosi inquadrati, requisiti richiesti in pochi casi dal Paganesimo e che non erano dunque norme generali. Per il Cattolicesimo si deve rimanere dentro il perimetro di una rigorosa continenza, illegittima dopo aver superato il confine dell’inammissibile illecito (pedofilia, stupri, etc.) il quale può alimentare come deprecabile effetto collaterale; così pure presso gli Oceaniani «la cosa terribile che il Partito aveva fatto era di persuaderti che i meri impulsi, i meri sentimenti erano senza importanza, mentre allo stesso tempo ti privava di tutto il potere sul mondo materiale».


venerdì 17 giugno 2016

ESTHER GREENWOOD E SYLVIA PLATH

IL CAMMINO DELL’INDIVIDUAZIONE NE “LA CAMPANA DI VETRO”

di DANILO CARUSO

“The bell jar” (“La campana di vetro”) è l’unico romanzo di Sylvia Plath (1932-1963), la scrittrice americana, madre di due figli, suicidatasi dopo essere stata abbandonata a metà del ’62 dal marito, il poeta inglese Ted Hughes (1930-1998). A lei e al suo “confessionalismo” ho dedicato due saggi critici nei quali rivisito la sua vicenda e la sua opera sulla base di un modello d’analisi junghiano, il quale secondo me rende più giustizia alla sua persona che non altre impostazione di studio (di carattere freudiano e gravesiano). Nel presente scritto è estratta dal mio primo testo la sezione relativa a “The bell jar”; circa un approfondimento del mio impianto analitico invito alla lettura dei miei saggi chi è interessato: “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”. Alcuni temi esaminati avvicinano la Plath all’antropocentrismo letterario ed esistenziale dello scrittore e artista Edward Estlin Cummings (1894-1962).
Un antropocentrismo di ascendenza classica e ispirazione spiritualista del cui promotore la Plath ricorda una poesia ne “La campana di vetro”: “somewhere i have never travelled,gladly beyond”, il cui primo verso (dicente: «in qualche luogo dove non ho mai viaggiato») esprime un senso dell’utopico. Qui rammento inoltre e soprattutto la centralità che in tali miei studi assumono precisi concetti junghiani: Grande madre, ombra, dialettica anima/animus e processo di individuazioneRispettivamente correlati alla madre di Sylvia (una delle sue cause di disagio), al mondo circostante (nella sua veste distopica contrapposta alla modalità frommiana dell’essere seguita da Sylvia), e all’evoluzione personale spirituale della grandissima poetessa di Boston (il cui ricercato animus oscillava tra due termini di segno opposto, i quali nella mia analisi ho designato con gli appellativi di “Ariel/Perseo”+ e “Umbriel/Cristo”-). Il romanzo in esame traspone la più giovanile situazione plathiana nel racconto e nel personaggio di Esther Greenwood, una ragazza che sulla falsa riga di Sylvia vede germogliare sulla morte del padre e sul confronto con la mamma due tenebrosi motivi di malessere. Il suicidio fallito (il primo tentato della Plath risale al ’53, e corrisponde a quello narrato nel romanzo) e il successivo periodo di recupero apriranno una prospettiva di risanamento interiore descritta dall’autrice. Sylvia Plath all’inizio del ’61 ebbe un aborto, e poi si sottopose ad appendicectomia: sembra che la redazione del romanzo sia iniziata mentre subiva questo lungo ricovero rievocantele altri traumatici ricordi.
Dopo la separazione matrimoniale andò a risiedere a Londra in compagnia dei figli, in un appartamento che a suo tempo aveva ospitato William Butler Yeats (1865-1939). Qui concluse il suo romanzo: “The Bell Jar” fu stampato e diffuso sotto uno pseudonimo (Victoria Lucas) nel gennaio del ’63, ma non ottenne subito quel successo da lei atteso. 
Il suo titolo rammenta la “campana pneumatica” strumento di tortura dello Stato unico zamjatiniano. Esther/Sylvia, nella sua personale distopia è accostabile in virtù del suo positivo potere eversivo a I-330, e Ted Hughes a D-503. L’esperienza sgradevole di Esther al cinema narrata al cap. 4 ha un qualcosa dei toni distopici di quella vissuta da Winston Smith in “1984”. Allorché nel cap. 2 Sylvia parla dei benefici effetti sulla protagonista di un bagno, immersa in una vasca, nell’acqua molto calda, non fa altro che riproporre l’immagine dell’accogliente e rassicurante grembo della Grande Madre positiva, dove aspira a tornare nei momenti di disagio, difficoltà, presentati dalla quotidianità e dalla società volgari: tale brano indica chiaramente il modo in cui siffatta prassi costituisca la ricerca di un rifugio distaccante dal mondo comune. Esther Greenwood puntualizza il suo scetticismo nei confronti di abluzioni battesimali, ma ribadisce che il suo bagno ha la capacità di rigenerarla con analoga potenza, a testimonianza che le varie forme di battesimo, e riti simili, sono espressione di un universale desiderio di liberazione e purificazione: «Mi adagiai in quella vasca da bagno.. più o meno un’ora, e sentii che stavo diventando di nuovo pura. … credo di sentire… quanto la gente religiosa prova in relazione all’acqua santa. … Più a lungo stavo adagiata là nella chiara calda acqua più pura mi sentivo, e quando uscii alla fine e mi avvolsi in uno dei grandi, soffici bianchi asciugamani da bagno dell’hotel mi sentii pura e dolce come una neonata». Il cap. 8 presenta altri elementi junghiani. 
Dapprima viene menzionato il titolo di un’immaginaria poesia “Florida dawn”, il quale conduce nella realtà alla lirica “Florida at dawn” di Will Wallace Harney (1832-1912), testo contenente una rappresentazione dell’alba che può ben figurare nella veste di alchemica “albedo”. Poi un ragionamento della protagonista de “La campana di vetro” espone la dicotomia “Ariel/Umbriel” dell’animus plathiano: «Se nevrotico equivale a volere due cose incompatibili insieme e nello stesso tempo [pensiamo al “double think” di “1984”; n.d.r], allora io sono nevrotica un inferno. Io rimarrò a volare indietro e avanti tra i poli dell’antinomia per il resto dei miei giorni». L’incontro di Esther, tra i capp. 3 e 4, con la editor della redazione del “Ladies’ Day” (rivista presso cui sta facendo pratica), ha una vaga aria rievocativa di quello tra il grande inquisitore e Gesù Cristo descritto da Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”. Solo che nel romanzo plathiano le parti si invertono. Lei diventa la “grande inquisita” e la responsabile del giornale – Jay Cee, nome avente una forte paronomasia con “Jesus” e segnalantesi inoltre per via delle iniziali, J[esus] C[hrist] – ricopre un ruolo inquisitoriale ambiguo: Gesù Cristo interroga la penitente, la strega (la “Witch burning” di “Poem for a birthday”), la peccatrice, quella che diverrà “Ebrea”. 
Il definirsi della Plath tale nelle sue poesie equivale al suo convertirsi in olocausto al cospetto del mondo della storia, dove la “Shoah” assume il compito di una sostanziale e trasposta letteraria cornice della capacità distruttiva dell’“ombra” junghiana. Hanno colorazioni apocalittiche i brani a chiusura di quest’esperienza di Esther/Sylvia: «Quando i cherubini nell’orologio francese da parete di Jay Cee agitarono le loro ali su e giù e imboccarono le loro piccole trombe e fischiarono dodici note una dopo l’altra, Jay Cee mi disse che avevo fatto abbastanza per la giornata… Lei appariva terribile, tuttavia molto saggia… “Non lasciare che la grande e malvagia città ti trascini nell’abisso”». E subito dopo l’autrice del romanzo fa un paragone nell’ambito di sfondo della Grande Madre: fra la mamma di Esther (ragione di malessere e disagio) e la desiderata madre da questa (Jay Cee), illustrando così la bipolarità “negativo/positivo” di detto archetipo. La mamma di Sylvia è agli occhi della scrittrice un Cristo di Inquisizione antisemita. Più avanti nel cap. 9 allorché viene domandato a Esther quale professione intendesse svolgere, costei risponde di non aver idea, però nel momento in cui Jay Cee replica che «lei vuole… essere tutto», la prima conclude esternando la sua volontà di fare la poetessa. Il cap. 11 porta il lettore dentro la stanza d’attesa dello psichiatra di Esther, una stanza senza finestre la quale rammenta quelle inquietanti dell’oceaniano “ministero dell’amore”, e che introduce la protagonista davanti a una sorta di O’Brien dell’unidimensionale società occidentale, il quale finirà col riservarle, mediante l’elettroshock, un trattamento simile a quello toccato a Winston Smith. Esther/Sylvia è finita lì a causa del suo disagio esistenziale e dei suoi sintomi.
L’esperienza dell’elettroshck ritorna nel cap. 17 con toni cupi vicini a quelli di “1984”: Esther, ricoverata, si sente di fronte a tale prospettiva «una persona rassegnata freddamente all’esecuzione», e quell’itinerario alla volta della sala della terapia e la sua anticamera evocano il tragitto verso la “stanza 101”. La parte centrale del cap. 18 è molto rilevante e delicato poiché tratta il tema dell’omosessualità, e il lesbismo in particolare. Sylvia Plath stette a contatto con professori omosessuali allo “Smith College”: Newton Arwin (1900-1963), critico letterario, travolto dallo scandalo giudiziario della scoperta pubblica della sua omosessualità, noto pure per aver intrattenuto un legame con lo scrittore Truman Capote (1924-1984); e la scrittrice Mary Ellen Chase (1887-1973), la quale invece ebbe margine di vivere la sua condizione con più tranquillità. La Plath giudicava gli omosessuali «persone eccentriche [queer people; Diario 7-4-1958]». Nutriva «ammirazione per le donne forti, sebbene lesbiche [admiration for strong, if Lesbian, woman; Diario 7-11-1959]». In “The Bell Jar” il tentato approccio di Joan nei confronti di Esther mette in scena un duo che sembra una drammatizzazione dell’amicizia tra Sylvia Plath e Anne Sexton (1928-1974: poetessa morta suicida; la quale ebbe una cognata di nome Joan, perita in un incidente stradale nel 1969). Gli elementi descrittivi nella narrazione, in parte di tragico contenuto profetico, inducono a crederlo: il trovarsi nella medesima struttura di recupero (entrambe finirono negli anni ’50 in ospedali psichiatrici), la più o meno strana affinità. La Sexton sarà ricoverata, a causa del suo crollo psichico, allo scopo di condurre degli esami medici, alcuni giorni nel 1973, al “McLean Hospital” di Belmont (luogo di cura dove era andata a tenere seminari sulla poesia in precedenza, dopo la morte di Sylvia, questa là curata a suo tempo). Nel cap. 19, alla cui fine Joan muore suicidandosi, in maniera catartica per la protagonista di “The Bell Jar”, della quale la prima è una specie di alter ego negativo, Esther/Sylvia dice: «Nonostante le mie profonde riserve, io pensavo che avrei sempre dato molta importanza a Joan. Era come se noi fossimo state messe assieme da qualche schiacciante circostanza, simile a una guerra o una pestilenza, e condividessimo un mondo tutto nostro». Rimane difficile stabilire se (Jo)an-ne Sexton (sospettata di lesbismo) avesse davvero provato un approccio omosessuale nei riguardi della Plath, o i brani in questione siano solo una trasposizione letteraria distorta, divertita e fuorviante. Appare chiaro che in Sylvia Plath non si radicassero inclinazioni lesbiche e che fosse tollerante: personalmente una tale possibilità non le era congeniale, e il testo del romanzo lo puntualizza col suo dire “confessionale”. Ted Hughes aveva mostrato omofobia. Benché a Sylvia fosse mancato con la prematura scomparsa del padre un termine polare primordiale di animus junghiano, la sua evoluzione psicosessuale mantenne, nonostante tutto il resto, un percorso “tradizionale”. Il deflorante congresso carnale col professore di matematica, nel cap. 19, rappresenta la “sizigia” junghiano-alchemica: costui è il “logos”, il maschile, l’animus; lei è l’“eros”, il femminile, l’anima. Esther guarisce in quella congiuntura psicoalchemica. Si può dire che nell’ottica letteraria e simbolico-alchemica il suicidio di Joan sia “naturale”. Degne di nota inoltre sono un paio di analogie saffiche (frammenti 107 e 114, edizione Voigt), sul finire della prima metà di questo capitolo, in merito alla perdita della verginità, in due passaggi narrativi (uno precedente e l’altro seguente l’evento): «la mia verginità pesava al pari di una macina attorno al mio collo»; «io non potevo assolutamente essere una vergine mai più». Il ventesimo e conclusivo capitolo di “The Bell Jar” ripropone l’immagine dell’archetipo della Grande madre nella sua veste negativa legata al complesso materno di Esther/Sylvia: «Il viso di mia madre… una luna pallida, di rimprovero». Viene riaffermato il carattere distopico della realtà: «Alla persona nella campana pneumatica, vuota e chiusa a guisa di un feto morto, il mondo stesso è il brutto sogno. … Cosa era là rispetto a noi, nel Belsize, così differente dalle ragazze che giocavano a bridge e facevano pettegolezzi e studiavano nell’università dove vorrei ritornare? Quelle ragazze, anche, stavano sedute sotto una campana pneumatica di sorta». Tuttavia si offre a Esther lo stadio psicoalchemico della “rubedo”: «Il sole, emerso dai suoi grigi veli funebri [shrouds; una Pasqua di resurrezione è qui dipinta] di nube [of cloud: complemento di materia], splendeva con una lucentezza estiva… come se l’usuale ordine del mondo fosse un poco cambiato, ed entrato in una nuova fase». A dispetto di un momento di insicurezza adesso lei è libera. Viene difficile accettare l’esistenza dell’inferno cristiano: se si vuol punire l’anima basta rimandarla in questo mondo fenomenico, non c’è bisogno di immaginare un ulteriore posto di dolore e afflizione. Pertanto liberarsi dalle catene dell’universo empirico, forse, è un premio; e la morte un’illusione di terrore angosciante vigliacchi e stolti, prigionieri di una scatola spaziotemporale, di un tipo di nevrosi collettiva che abbrutisce gli esseri umani rendendoli più vicini alle bestie. 
Di sicuro sembra sbagliato anticipare la propria dipartita: c’è tempo per morire comunque. La Plath fa dire a Esther in “The bell jar”: «credevo nell’inferno, e che certa gente, come me, doveva vivere nell’inferno prima che loro morissero, al fine di compensare per l’omissione di ciò dopo la morte, giacché non credettero nella vita dopo la morte, e [ritenevo che] a quanto ognuno prestò fede che accadesse a lui quando moriva. … dovrebbe, pensai, esistere un rituale per nascere due volte – aggiustata, ricostruita e dichiarata buona per la strada [somigliante a un copertone d’automobile la psyché nella concezione plathiana]». Sylvia ha raggiunto la beatitudine eterna, una fama immortale: vogliamo immaginarla accanto a Dante mentre ha incontrato gli spiriti magni dell’antichità (Saffo, Ipazia d’Alessandria, Platone, il poeta “confessionale” Catullo…).


mercoledì 15 giugno 2016

LO SPECCHIO SPORCO DEL PADRONE

di DANILO CARUSO

Parlare del concetto di “cittadino” e della coscienza che ogni essere umano civile ha di questa sua dimensione è un tema delicato soprattutto se ci troviamo di fronte a contesti degenerati non molto distanti dal tramutarsi in forme distopiche. Il generale Perón spiegò una volta che in relazione a una comunità umana “comandare” significa “obbligare”, “condurre” invece “persuadere”, e che pertanto è meglio fare persuasi gli uomini piuttosto che obbligarli. Ciò vuol dire che l’informazione e l’educazione del cittadino sono momenti imprescindibili di una crescita collettiva, e che essi vadano generalizzati non in qualità di concessione di un beneficio, bensì a tutela della dignità umana – universalmente in primis – e di conseguenza dei diritti di un soggetto inserito in uno schema sociale (da quello nazionale a quello locale). Governare un popolo alla stregua del responsabile di una fattoria di animali non produrrà mai vera democrazia e non sempre benessere. Quest’ultimo obiettivo rappresenta il problema centrale: se i diritti dei cittadini non vengono soddisfatti, non c’è traduzione della teoria democratica (e appare evidente dal fatto che nessuno vorrebbe il proprio male). Perciò chi vuole il riconoscimento di un popolo servito a dovere – come sottolinea Hegel nella “Fenomenologia dello Spirito” – deve ottenere un tale atto nei confronti del suo operato da individui non subordinati, ma resi a lui omogenei. Coloro i quali sconoscono la sostanza di una questione si ritrarranno nell’ignoranza, non sapendo cosa dire e in che modo reagire, e rassegnandosi a direttive a volte percepite non buone. Quando Hegel afferma che il “signore” usa male la libertà derivatagli dalla sua superiorità per mantenere gli altri nell’inferiorità della servitù non sbaglia a evidenziare lo squilibrio da costui arrecato all’armonia sociale e la compromissione della base del suo stesso potere: il comandare un subalterno non è l’identica cosa di persuadere un simile. Appare dunque chiaro che se la maggior parte della gente rimarrà all’oscuro di conoscenze adeguate e opportune in maniera alquanto difficile riuscirà a far valere i suoi diritti e si degraderà a un ingenuo donatore di consenso elettorale. Ovunque un dibattito mirante a una petizione di giustizia sociale dovrà ampliarsi il più possibile e porre i partecipanti sul medesimo piano: questo il senso dell’antica democrazia in Grecia, cui oggi si richiama la moderna. Se l’approccio alla comunità viene fatto dall’alto verso il basso, una tale discesa non è democratica; se si innalza il popolo a un livello medio più consapevole, di certo la politica clientelare ci perderà, però la società sarà migliore: non si darà ancora molto spazio a incantatori di teste vuote. Mi piace ricordare tipico dello Spirito hegeliano il mettersi in casa il negativo (il limite): nel modo accennato sopra della dialettica servo-padrone, tutti quelli che non hanno davanti a sé un pari con cui misurarsi si tramutano in usurpatori, tiranni i quali saranno periodicamente rovesciati. Il riconoscimento se non viene in maniera simmetrica, come al cospetto di uno specchio pulito, non genererà democrazia (e forse neanche benessere): l’asimmetricità dello specchio sporco del padrone, che riflette a chi gli sta innanzi solo la coscienza animale (non spirituale), dà origine a tutta una casistica nota attraverso i mass-media. Qualsiasi consorzio sociale strutturato non sul valore delle idee e dell’intelligenza si degrada e si corrompe in forme ingiuste e sperequative. Si potrebbe obiettare che sia difficile governare, e comunque sia preferibile lasciare l’onere/onore a certa casta del settore, che chi non ha governato non possa giudicare obiettivamente; ma almeno chi non ha governato, ed è stato spettatore (anche critico), non ha avuto modo di dimostrare la propria presunta incapacità, la quale, reale nell’attuazione di scempi, non ha tuttavia sempre comportato che i suoi protagonisti si mettessero da parte. Un popolo cresce se istruito e difeso, viceversa farà la fine dell’orwelliana animal farm, dove tutti gli animali alla fine erano uguali, ma alcuni erano più uguali di altri. A proposito della dicotomia “politico/non politico” voglio esprimere una piccola valutazione rifacentesi all’idea aristotelica secondo cui di per sé ciascun essere umano (associato) sia un “animale politico”. Ogni cittadino che vive in società è “politico”, e se la sovranità risiede nel popolo, lo è a maggior ragione. L’amministrazione di un ente non esaurisce e circoscrive in sé la politica, né tanto meno l’unico tipo politico è l’amministratore. Il primo “politico” è l’elettore, il quale delega a rappresentanti un potere di governo. Penso si sbagli quando si percepisce il governante estraneo, o peggio ancora ostile: chi l’ha eletto, in tali casi, soffre l’incapacità di darsi autogoverno giusto e proficuo. Hegel chiamerebbe questa alienazione non positiva della facoltà di dirigere la società “coscienza infelice”. Credo bisogni superare l’infelicità di vedere negli amministratori degli alieni insediati dal destino a costituire una sorta di signoria rinascimentale. Se si vuole ragionare di politica tutti quelli che lo fanno sono “politici” per natura: nessuno è interdetto dalla possibilità di esprimere argomenti sensati o di ottenere incarichi di governo in modo automatico perché una parte impropria e non esclusiva di politica si arrocca dietro una torre ritenuta dalla gente comune inespugnabile. È indubbio che la tecnica di governo richieda conoscenze particolari e specifiche (e che lo studio serva a ciò), tuttavia non è benefico che la moltitudine a volte si disinteressi e si squalifichi al cospetto di una sostanza la quale non è dappertutto e in ogni caso il massimo dell’eccellenza. Il desiderio naturale di ogni cittadino è di essere ben amministrato; in democrazia il buon governo dovrebbe iniziare da lui: primo a essere “politico”, autore di una concessione di potere – chi amministra opera “alieni iuris” – che risiede coagulato nell’unione della razionalità soggettiva. Per non essere politici basta privarsi dell’intelligenza e vivere a guisa di bestie, altrimenti tutti sono “politici” e hanno responsabilità di fronte alla comunità grazie alle scelte e al voto espressi. Sembra perciò deviante mettere a priori in luce o in ombra la parola di qualsiasi politico italiano: potrà dire e/o fare cose buone e utili, o essere ipocrita e non attenersi al bene pubblico. Il criterio di giudizio ritenuto da me migliore scaturisce dalla considerazione della bontà, della qualità della proposta o dell’operato: a chi ha servito il popolo in maniera eccellente andrà il plauso, riguardo a chi non lo ha fatto si deve comprendere che non è un irremovibile, una maledizione del fato. La prima cosa di cui prendere coscienza è che una comunità non è tale se non è corresponsabile delle sue sorti (che cosa c’è di serio in comune?). Se si istituiscono dei gradi tra persone, in favore di alcune che sanno fare di più e capiscono meglio nell’ambito amministrativo, quale senso ha la decantata uguaglianza, la democrazia elettiva, nel momento in cui l’elettore si riduce a personaggio di una finzione?

giovedì 9 giugno 2016

NELLA VITA DI SYLVIA PLATH

di DANILO CARUSO

Così si intitola l’ottimo biografico film italiano del 1980 con protagonista Carla Gravina, che a me pare migliore dell’altro del 2003 (“Sylvia”) con Gwyneth Paltrow (attrice bella e brava come la Gravina, incolpevole di ciò), il quale non rende a mio avviso la reale portata della poetessa di Boston. Alla vita e alla poetica di Sylvia Plath ho dedicato due saggi in cui opero un’analisi seguendo un innovativo modello junghiano. Al lettore desideroso di approfondimenti rivolgo l’invito a leggere i miei lavori (dove spiego le ragioni del rifiuto di tradizionali schemi interpretativi freudiani e gravesiani): “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”. Credo che l’autentica scrittrice, di cui qui riporto il profilo biografico estratto dal mio primo saggio, emerga in maniera reale utilizzando strumenti analitici elaborati da Carl Gustav Jung: la poesia plathiana non è il prodotto di una vocazione nevrotica, è invece una via di risanamento del disagio. In questo contesto hanno il potere di far comprendere la poetica della poetessa bostoniana in maniera nitida diversi concetti junghiani: la dialettica “anima/animus”, il “processo d’individuazione”, l’archetipo della Grande Madre, e infine il concetto di “ombra”.
La vicenda plathiana è testimonianza dell’urto che incontra la modalità frommiana di vita dell’essere, dimensione dell’esistere che lei accolse elevandosi a dignità superiore. La distopia dell’avere, agitante le menti volgari, produce un mondo il quale mira ad annientare la creatività, la condivisione del vero, la fruizione del bello, la pratica del giusto. La personalità della Plath è quella di una campionessa dell’essere entrata nell’immortalità.
Sylvia Plath Schober (di Otto e Aurelia; il suo nome fu un omaggio paterno ai pregi terapeutici della salvia) nacque a Boston il 27 ottobre 1932. 
Il padre (1885-1940), divorziato senza prole da un primo matrimonio alla fine degli anni ’20, era un Tedesco emigrato negli USA quindicenne, che, respinta la giovanile intenzione di farsi pastore luterano e rigettata la passione religiosa, divenne entomologo e professore universitario. La madre (1906-1994) proveniva da un nucleo familiare originario dell’Austria. Allorché i coniugi Plath Schober ebbero l’altro figlio Warren (nato nel 1935) si concentrarono su di lui in ossequio a una mentalità maschilista: la cosa segnerà profondamente Sylvia, facendole valutare la condizione femminile una disgrazia e un limite. Il 5 ottobre 1940 perse il padre malato di una patologia diabetica (lui credeva di avere un cancro, e non accettò assistenza medica se non quando fu troppo tardi per impedire conseguenze): l’evento fu nei confronti di lei e dei familiari molto traumatico, e il fattore che accelerò il moto della sua parabola depressiva. Infatti nel complesso familiare subì la saturazione di quel clima di malattia al punto tale di sentirsi responsabile dell’accaduto a causa dell’ostilità nei riguardi del padre da sempre distante da lei. Fu quello il periodo in cui cominciò a scrivere poesie (la prima pubblicatale fu sul “Boston Herald” del 10-8-1941). 
Da adulta rammenterà la suggestione delle ninne nanne nel darle spunto d’interesse alla musa. Fu costretta all’ultima annata di scuola elementare a essere ripetente per una mera questione di età, affinché non si vedesse poi di fronte compagni più grandi di lei. Nel ’47, in virtù della sua abilità a dipingere, ricevette un premio scolastico. Nella giovane Plath la poesia e lo scrivere assunsero un ruolo centrale nell’esprimere il significato dell’esistere umano, di strumenti tesi alla conversione dell’accidentale in metafenomenico, allo scopo di volgerlo nell’immutabilità dell’ideale: tutto ciò al di là di un intento di lucro, comunque da lei ritenuto utile, non così disprezzabile, nella misura dell’“avere esistenziale” frommiano. 
Nel 1950, al termine del liceo, proseguì a studiare, dopo aver ottenuto una borsa di studio, allo “Smith College” di Northampton. Iniziò presto a farsi conoscere nel mondo editoriale con i suoi testi (tra cui figuravano pure racconti). Un infortunio con gli sci durante quel primo anno accademico la costrinse a una degenza ospedaliera dovuta a una frattura a una gamba. Questa situazione la spronò a pianificare un decalogo operativo da applicare al suo ritorno agli studi: si propose mete alte, ma al contempo mantenne basse le aspettative.
All’università scriveva su “The Smith Review”. Il primo posto in un concorso organizzato dalla rivista di moda “Mademoiselle” di New York, grazie al racconto “Sunday at the Mintons”, le aprì la strada a un piccolo periodo di pratica in qualità di redattrice presso di loro nella seconda metà del ’53. Finito l’esercizio, delusa dal fatto che non le avevano consentito di incontrare Dylan Thomas (1914-1953), da lei moltissimo ammirato (le cui declamazioni aveva ascoltato dal vivo quell’annata in USA), la sua depressione, rinvigorita da sensazioni di inadeguatezza, incompletezza, isolamento, e dal rifiuto di una realtà circostante avvertita come condizionatrice (a cominciare dal difficile rapporto con la rigida madre), la indusse a una sorta di test di adeguatezza al suicidio. La strategia medica antidepressiva a lei riservata, basata sull’elettroconvulsione, peggiorò le cose. Nell’agosto del ’53, appartatasi nella sua abitazione dentro la cantina, tentò, senza riuscita, di togliersi la vita, usando sonniferi (vomitati perché ne ingerì troppi). I suoi dubbi, le sue insicurezze (l’Università di Harvard, ad esempio, le aveva rifiutato l’ingresso a un seminario di scrittura) circa il futuro hanno una radice remota, che i suoi diari, iniziati nel ’44, rivelano sin dal principio della loro redazione (alla vigilia del tentato suicidio, tempo in cui leggeva Freud, le annotazioni si interruppero: saranno riprese in seguito, così come le letture freudiane). 
Intanto venne ricoverata per essere curata al McLean Hospital di Belmont, dove subì più volte la pratica terapeutica dell’elettroshock. La risposta di aggressività nei confronti della madre le è rimbalzata addosso: la figura materna rimarrà nei suoi riguardi sempre opprimente tribunale (da cui ottenere benevolenza e consenso) e altare di sacrificio a cui offrirsi in olocausto (i tentativi di trovare la morte). Ciò le causerà inoltre una difficoltà a scrivere, a produrre, giacché vedeva sua mamma dalla prospettiva negativa di uno junghiano archetipo di Grande Madre: una divoratrice, che la poteva espropriare di tutto, mortificante, pretenziosa di tradizionale borghese stabilità verso la figlia. 
La percezione dell’esistenza come un ambito da riempire in maniera consona spronò invece la Plath allo studio, a leggere, e all’adozione dello scrivere nella veste di personale strumento di indagine e di elevazione. Ella cerca di avvicinarsi alla soglia della perfezione divina, e al fine di imitarla coglie e sfrutta le sfaccettature del logos. In una lettera di fine ’49 alla mamma aveva espresso il desiderio di appellarsi «la ragazza che voleva essere Dio [the girl who wanted to be God]». L’insoddisfazione e l’inappagamento del suo ego divennero ulteriori sproni del suo scrivere che voleva sfuggire il transeunte: e la più ricca miniera di non temporale è l’interiorità che lei riversò nell’agire e nei suoi scritti. 
Le sue azioni e i suoi elaborati letterari diverranno simulacri di se stessa, immagini consegnate all’eterno: il logos da linguaggio empirico sale al piano ideale dei concetti dove si cristallizzano le sue espressioni poetiche, cosicché la di lei ricerca di affetti, di delicatezza, la porta a un confronto dialettico con la realtà quotidiana la quale a tratti variabili la sconcerta, la delude, la disorienta. Però lei è così brava che riesce a costruire una scrittura che non muore sulla carta: dinamica, carica della composta energia trasfusale dall’autrice; il suo dire e il suo fare rimarranno “attuali” nella forza di significazione che lei ha saputo e voluto dare. Terminato il recupero, mediante il sostegno economico della scrittrice e filantropa Olive Higgins Prouty (1882-1974; la quale aveva sofferto, superandoli, simili problemi), attraversò nel ’54 una fase di positivo sviluppo: riprese gli studi, ebbe un nuovo ragazzo (non sarà l’unico nuovo) e trascorse pure un periodo ad Harvard. Quindi completò nel 1955, sempre con l’aiuto pecuniario della Higgins Prouty che le garantiva la borsa di studio (anche lei aveva studiato allo “Smith College”), il percorso universitario in lettere, scrivendo una tesi su Dostoevskij, con la massima valutazione. Lei e la sua benefattrice rimarranno sempre in contatto. Una nuova borsa di studio le consentì di frequentare l’università a Cambridge. Fece dei viaggi durante quel primo inverno inglese: in quest’occasione stette in compagnia di un suo ex, ma rimasta in sospeso per via di una scelta di lui, ella ne rimase molto abbattuta. E sommata una serie di deludenti varie impressioni, sentì, a febbraio del ’56, il bisogno di parlarne con uno psicanalista. A Cambridge, dove ebbe modo di far notare le sue doti artistiche, ormai sentimentalmente quasi liberatasi, poiché si era lasciata alle spalle soprattutto con la partenza dagli USA i vecchi legami amorosi, fece in quello stesso mese la conoscenza di Edward James Hughes (1930-1998), chiamato Ted (secondo lei erano entrambi tipi psicologici introversi): era il “colosso” che attendeva (il suo uomo perfetto era imponente altresì sotto il profilo intellettuale, come chiariva in una lettera del ’53 alla madre). Uniti realizzavano la filía del “Liside” e del “Laelius de amicitia”. 
L’incontro avvenne la sera del 25 a una festa, giorno in cui lei aveva iniziato dallo psicanalista. Aveva letto dei testi di Hughes, restando colpita dal suo talento. Nei due giorni seguenti la reciproca fulminazione lei scrisse la profetica lirica “Pursuit”. 
Se valutiamo l’incontro tra Sylvia Plath e Ted Hughes sotto un’ottica meno superficiale, psicologica (e più in particolare junghiana), ci rendiamo conto che tale poeta è stato scelto in funzione di figura-terapeuta. Entrambi si incontravano sullo stesso piano di linguaggio: la poesia. Si mise in moto, in modo opposto rispetto all’ordine reale di trattamento junghiano di un soggetto, un meccanismo paziente-analista partito dal ritrovarsi già in sintonia. 
L’innamoramento della poetessa di Boston ha dunque la forma di un transfert sui generis all’interno di un ambito terapeutico tradizionale. Questo cammino di approdo non fu tuttavia liscio. Lei tentennava, pensando a quel suo ex da cui sperava qualcosa. Passata una notte da Hughes a Londra, poi lo andò a cercare a Parigi. Non trovatolo si recò in Italia con un altro ex, Hughes però le scrisse parole d’amore che la spinsero a tornare definitivamente da lui. Finirono perciò con lo sposarsi in un joyciano 16 giugno (con gran riservo perché lei si preoccupava che le condizioni di concessione della sua borsa di studio non glielo consentissero: al matrimonio, in una chiesa di Londra, c’era soltanto la di lei madre). Condivideranno fra l’altro una passione per l’occulto e l’interesse per lo sciamanesimo. Jung mostrò attenzione nei suoi studi sull’inconscio collettivo alle tecniche divinatorie (alcune della quali, a suo avviso, erano in grado di intercettare il piano collettivo transpersonale della psiche, al di là della nostra consapevolezza): la Plath cita i tarocchi, ritenuti da Jung riproposizioni archetipiche capaci di aprire varchi, seppur poco chiari, alla volta dell’inconscio collettivo (egli le chiama infatti “nuvole di cognizione”), nella sua celeberrima lirica “Daddy” facendo uso di una significativa ripetizione. Il fatto che sia stato scoperto un filo tra Sylvia Plath e la simbologia alchemica, legame che rinvia a una possibile sua lettura dell’opera junghiana dedicata al rapporto fra alchimia e psicologia, alla luce di quello che dico nel mio saggio, non è poi così eclatante o stupefacente, poiché tale filo è un effetto, non una causa, nella sua produzione poetica. Intanto l’allora non ancora emerso poeta Hughes aveva abbandonato un suo impegno lavorativo a Londra per stare vicino alla Plath a Cambridge. Egli stesso confessò al fratello in una lettera del ’57 l’importante apporto della scrittrice bostoniana nei suoi esordi letterari: ciò conferma la natura “junghiana” della loro relazione, in cui il “contagio positivo” sulla sua persona, che riveste la mansione figurata di terapeuta nei confronti del disagio di Sylvia, è evidente (Jung parla dell’analista come di qualcuno che impara dal paziente e allarga i suoi orizzonti). Sposatisi visitarono Parigi e Madrid, e si stabilirono pro tempore a Benidorm nello Yorkshire (dove vivevano i genitori di lui, ai quali in un primo momento non aveva detto niente del suo matrimonio). Allontanatisi in autunno allo scopo di assolvere ai propri impegni, decisero di comunicare alle autorità scolastiche cui la Plath rispondeva la notizia della loro unione, ricevendo un positivo riscontro e niente di quanto ella paventasse. Completati gli studi scolastici di lei, si ritrovarono nel giro di poche settimane nella loro abitazione di Cambridge (lui aveva ottenuto un incarico semestrale di docenza). Nella prima metà del ’57 il successo arrise a Hughes: spinto dalla consorte a partecipare a un concorso newyorkese di poesia, la sua silloge “The Hawk in the Rain” ottenne riconoscimento tale da essere pubblicata in Usa e nel Regno Unito dove raccolse ulteriore apprezzamento (l’edizione inglese riportava una dedica alla moglie). 
La coppia, posteriormente a un soggiorno a Benidorm, risedette negli Usa dall’estate del ’57 all’autunno del ’59 (soprattutto in Massachusetts): la mamma di Sylvia organizzò un festeggiamento di accoglienza con molti invitati nella sua casa. 
Lei ritornò in qualità di docente per un anno nello “Smith College”. Non si sentiva sicura in simile ruolo (dove la madre vedeva il di lei futuro piuttosto che nell’insicurezza di una carriera di scrittrice), e in più questo suo rientro dalla parte dell’insegnamento contemplò un ambiente poco caloroso ed entusiasta. Alcune sue parole dal diario del ’58 (9 febbraio) hanno delle tangenze con lo sfogo contenuto nella lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513: entrambi sono delusi, disgustati, dal mondo che li circonda, e conseguono ristoro, sollievo, piacere, nel distacco serale in un’intimità di autentica edificazione con la vera umanità. Il carattere di lei, in particolar modo, era combattuto fra una inclinazione al ritiro dell’“essere frommiano”, al fine di dedicarsi allo studio e alla produzione, e una naturale, comune, vocazione al rapporto umano (ecco in azione la dialettica “introversione/estroversione”). I due consorti si trasferirono, dopo aver vissuto a Northampton da agosto a novembre, a Boston con l’obiettivo di esercitare l’esclusiva professione di scrittori; ciò nondimeno Hughes non respinse la prospettiva di insegnare sei mesi all’università del Massachusetts all’inizio del ’58 (l’annata successiva fu gratificato da 5000 $ di un premio). 
La coppia di sposi Hughes Plath diventò inoltre amica del poeta pacifista William Stanley Merwin (n. 1927; tra l’altro, autore di traduzioni dalla letteratura italiana), il quale apprezzò le capacità letterarie dei singoli coniugi. Durante l’ultimo segmento di tale periodo americano Sylvia Plath si fece assistere, all’insaputa di Ted, da una psicanalista (la stessa dottoressa che l’aveva presa in cura al McLean Hospital). Aveva a quell’epoca ottenuto pure un lavoro presso un ufficio di un ospedale psichiatrico. In questa fase evolutiva della sua poetica ebbe l’opportunità di ascoltare a inizio del ’59, presente con altri oltre a lei l’amica Anne Sexton (1928-1974; “poetessa confessionale” perita suicida), Robert Lowell (con William Dewitt Snodgrass fondatore della corrente letteraria dei “poeti confessionali”). Sylvia Plath ammirava i versi di Robert Lowell (1917-1977; nato a Boston), noto in virtù delle sue posizioni avverse ai pregiudizi razziali e alla guerra, ma anche a causa dell’aver sofferto di pazzia: il di lui “confessionalismo”, siffatto approccio intimo di analisi rivolto al fruitore, usciva da simile travaglio (“Life studies” del ’59 fu la sua opera che influì sulla poetessa sua uditrice). Le due poetesse Plath e Sexton amiche mediante Lowell, bevendo, si intrattenevano sul tema della morte e dei loro passati falliti suicidi (a entrambe era stato diagnosticato un disturbo bipolare). Le loro personali concezioni della poesia si influenzarono a vicenda. 
La Plath rimase colpita in senso favorevole dal fatto che l’amica discutesse nei suoi versi temi molto intimi e delicati nei confronti dell’opinione comune, inerenti alla famiglia e alla sessualità: “To bedlam and part way back” della Sexton è del ’60. Sylvia aveva ritrovato in una idealizzata Anne Sexton, la quale allora a Boston contemporaneamente a lei si sottoponeva a psicoterapia, la materia dei suoi problemi. Però nell’altra intravisti in una superiore ed esplicita veste di consapevolezza e accettazione (le due, nei loro colloqui, parlarono altresì delle loro esperienze di cura): ciò era fra le motivazioni della sua simpatia dai risvolti tuttavia ancora in parte frustranti. I genitori della Sexton, appartenenti alla borghesia media e tradizionalista, si erano rivelati inquietanti nei riguardi della figlia. Nel permanente vuoto affettivo rimasto a Sylvia Plath in seguito alla perdita del padre, la problematica relazione con la madre, che a suo avviso la riteneva, più o meno consciamente, responsabile della morte del marito, l’ha segnata tutta la vita. In aggiunta a questo rimproverava alla mamma un atteggiamento poco espansivo con lei, istituzionale, nel suo compito materno, il quale veniva quindi dalla poetessa percepito come frustrante termine di ostacolo (pensiamo alla madre di Giacomo Leopardi). Fatti alcuni viaggi (tra cui in particolare quello ricco di spunti per lei a Yaddo grazie ai paesaggi) Sylvia e Ted tornarono in Inghilterra, spinti dalla sua prima gravidanza (da cui nacque il primo aprile 1960 Frieda Rebecca, superato un di lei scoraggiante problema di infertilità). I due abitarono, trascorso il tratto festivo a cavallo di fine del ’59 a Heptonstall, dalla sorella di lui (la quale non gradiva Sylvia), dapprima a Londra, e da agosto del ’61 a North Tawton (in campagna, nella residenza di “Court Green”). 
L’ascesa del marito la compiaceva da sempre, sebbene si sentisse subordinata nelle proprie ambizioni, e nonostante i di lei parziali insuccessi presso editori: il precedente fatto di fargli mancare la paternità le era sembrato una diminutio capitis nei di lui confronti. 
“The Colossus and Other Poems”, selezione di testi poetici della Plath (recante la dedica “For Ted”), andò in stampa nel ’60, come “Lupercal” di Hughes. Detta raccolta plathiana uscirà negli USA nel maggio del ’62. All’inizio del ’61 lei ebbe un aborto, e poi si sottopose ad appendicectomia: sembra che la redazione del romanzo “The Bell Jar” sia iniziata mentre subiva questo lungo ricovero rievocantele altri traumatici ricordi, ma nel quale il periodico “The New Yorker”, che già aveva avuto modo di apprezzarla in precedenza, si offrì di pubblicarle delle sue nuove liriche. In quell’anno, passato un soggiorno estivo in Francia, dove stettero a contatto con Merwin, l’appartamento londinese di loro proprietà fu dato in affitto al poeta canadese David Wevill (n. 1935) e a sua moglie Assia (1927-1969; al terzo matrimonio nel ’60). Lei ottenne un premio di 2000 $ al termine del’61 conseguito da un suo racconto. Successivamente alla nascita dell'altro figlio, Nicholas Farrar, il 17 gennaio 1962 (annata in cui la scrittrice di Boston ottenne un premio letterario), il rapporto di coppia tra Ted e Sylvia si guastò a causa del tradimento di Hughes, che coltivava un legame assieme ad Assia Wevill (uccisasi in forma emulativa della Plath assieme alla figlia Alexandra avuta da lui nel ’65). La poetessa bostoniana, sulla quale peraltro era gravata la cura della casa, lo aveva scoperto apertamente durante quell’estate in cui la mamma era con lei in Inghilterra. Nel luglio di quel ’62 egli, smascherato, abbandonò la famiglia e “Court Green” per l’amante e Londra. Sylvia, che nutriva dei sospetti già da un paio di mesi e a maggio (prima dell’arrivo della madre) aveva cercato di togliersi la vita alla guida dell’auto gettandosi fuori della carreggiata, gli aveva bruciato tutte le di lui carte. I coniugi in disaccordo si recarono a settembre in Irlanda, sotto un pretesto mondano, con lo scopo di chiarire il da farsi, e con Hughes che la lasciò lì allontanandosi. Consumatasi la separazione legale anche la Plath, respinto il sollecito della mamma a far ritorno da lei, a dicembre, desiderosa di autonomia, si trasferì da North Tawton a Londra. E andò a risiedere, in compagnia dei figli, in un appartamento che a suo tempo aveva ospitato William Butler Yeats (1865-1939). Qui concluse il suo unico romanzo: “The bell jar”, stampato e diffuso sotto uno pseudonimo (Victoria Lucas) nel gennaio del ’63, il quale non ottenne subito quel successo da lei atteso. 
Alla vigilia della scomparsa stava pianificando la pubblicazione di “Ariel”, la selezione attingente poesie dal suo fecondissimo periodo degli ultimi mesi. La pesante e difficile situazione da gestire la spinse a mettere in atto un nuovo suicidio, interpretato da Alfred Alvarez (n. 1929; scrittore, amico della poetessa e di Hughes) più come un segnale volto a chiedere sostegno che non come concreto definitivo progetto di morte. A quell’epoca Assia Wevill era rimasta incinta: abortirà dopo la scomparsa di Sylvia. Purtroppo in quel lunedì 11 febbraio del ’63 le cose, forse, non si svolsero come auspicate dalla Plath (il venerdì precedente aveva visto Ted, recatosi a vederla perché aveva ricevuto una lettera d’addio di Sylvia): lei aspettava di mattina che venisse a trovarla una bambinaia mandata dal dottore che la stava assistendo in quei giorni; e il fatto che avesse annotato sopra un foglietto il numero di costui nella richiesta di farlo intervenire sistemata per un vicino d’appartamento induce a credere valida la prima ipotesi accennata. Intorno alle 5:00 preparata la colazione dei figli e messo su carta “Edge”, il suo ultimo componimento, il gas della cucina la uccise, in ogni caso, prima che il mondo potesse salvarla. Hughes si prese cura dei manoscritti di Sylvia Plath: accusato da viva di averla abbandonata, e poi di aver ritoccato molti versi di lei, mirando a diminuirne il pregio, in funzione autoprotettiva nel clima negativo rimproverantegli la colpa della morte della poetessa, fece credibilmente scomparire la parte dei diari che lo riguardavano (su di lui è gravata l’etichetta di marito fedifrago). Mentre la di lei madre cercò di impedirgli la stampa di testi i quali a sua volta riteneva non idonei alla divulgazione. Duro lo “I accuse” di Robin Morgan (n. 1941; scrittrice e attivista politica femminista e pacifista) a carico di Hughes in “Arraignment”, lirica contenuta nella di lei prima raccolta uscita nel ’72 dal titolo “Monster”. Lo scontro sorto fra la Morgan e Hughes si chiuse per vie legali nel ’74 con la messa all’indice di “Monster”, che allora fu diffusa clandestinamente. 
A proposito della pubblicazione postuma delle opere della Plath: “The Collected Poems” uscì nell’81 (l’annata successiva ottenne il “Premio Pulitzer”), dopo “Ariel” (con prefazione di Robert Lowell), “Three Women: A Monologue for Three Voices” (il cui testo fu trasmesso alla radio nell’agosto del ’62), “Crossing the Water” e “Winter Trees” (rispettivamente pubblicazioni del ’65 la prima, del ’68 la seconda, del ’71 le altre due; la “restored edition” di “Ariel” del 2004, rispettante la volontà progettuale nota della Plath, reca un’introduzione della figlia). Gran parte delle di lei lettere in possesso della madre (inviatele tra il ’50 e il ’63, in tutto sette centinaia) andarono in stampa nel ’75 (“Letters Home”), i diari sono stati pubblicati in due edizioni (1982 e 2000). La tesi di laurea (“The Magic Mirror”) è stata data alle stampe nell’89 (il racconto “Among the bumblebees”, un suo lavoro universitario, fu edito nel ’78). Altre diverse opere hanno visto la luce nell’arco degli anni: “The Bed Book” nel ’76, “The It-Doesn’t-Mutter-Suit” nel ’96, “Collected Children’s Stories” e “Mrs Cherry’s Kitchen” nel 2001 (si tratta di lavori offerti a un pubblico giovanissimo); “Jonny Panic and the Bible of Dreams” nel ’77. “Birthdays Letters”, una silloge di 88 poesie di Hughes pubblicata nel 1998, recupera e affronta temi del suo matrimonio con Sylvia (la loro figlia, la poetessa e pittrice Frieda, preparò la copertina del volume). Il 16 marzo 2009 Nicholas Hughes, affetto da depressione, si è ucciso impiccandosi. La serie di suicidi gravitata attorno a Ted Hughes è la materia esaminata in “Arraignment”. L’autrice lancia una terribile e violenta “accusa” inerente alle scomparse di Sylvia Plath, Assia Wevill e figlia, incolpando anche il mondo della critica letteraria di favoreggiamento a danno della reputazione della prima e a vantaggio di colui che giudica un assassino poiché induttore di morte. 
Parla di “femminicidio”: «Gynocidal movement». Circa le vicende di Sylvia Plath non si può far a meno di aggiungere a questa catena il suicidio di Anne Sexton. Lei e la Plath erano rimaste in contatto. E ciò viene menzionato nella sua lirica in memoria dell’amica, datata 17 febbraio ’63, intitolata “Sylvia’s Death”. In essa la Sexton chiede quale fosse la ratio del cedimento della Plath verso la seduzione della morte. E dopo i ricordi bostoniani, la chiama affettuosamente «piccola mamma… dai capelli biondi [tiny mother… blond thing; i capelli naturali di Sylvia erano di colore castano chiaro, ma ebbe a usare a volte una tintura biondo platino posteriormente al primo tentato suicidio]». Sylvia Plath alla fine del ’62 aveva esternato la sua antipatia per le scomposte “ragioni del cuore” (sensibility), i cui contenuti non fossero vagliati da un’“intelligenza vigile” (sense), e dichiarò che i suoi versi traevano sostanza dal suo vissuto interiore (e, come rammenterà Hughes, con particolare attinenza all’infanzia: una cura mirata pure al disinnesco di eventuali contenuti destabilizzanti). 
Alla forma logica dell’essere (pensiero, concetto; linguaggio, parola) lei accompagna la materia dinamica, il complementare energetico, che è l’eros: l’essere è costituito di logos ed eros. La sua poesia li rappresenta nella loro inscindibile perfezione unitaria e ideale. 
Il tenore lirico di Sylvia Plath è accostabile a quello di Saffo: entrambe suonano la stessa cetra. Il melos sarà di certo differente, ma la qualità è in tutte due i casi eccellente. 
Seamus Heaney (1939-2013; premiato col Nobel per la letteratura nel ’95, e unito a Ted Hughes da stretta amicizia) ha colto infatti nella scrittrice bostoniana l’elevata altezza del binomio musicale/semantico, che nelle splendide declamazioni radiofoniche della poetessa lei medesima traduce nell’espansione magnetica del suo verso, quasi fosse il canto di una sirena: Hughes, nel finale di una delle poesie di “Birthday Letters” (“18 Rugby Street”), la definisce «magra, agile, sgusciante come un pesce [slim and lithe and smooth as a fish]», e lei stessa da piccola si qualificava «sea girl».