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giovedì 9 giugno 2016

NELLA VITA DI SYLVIA PLATH

di DANILO CARUSO

Così si intitola l’ottimo biografico film italiano del 1980 con protagonista Carla Gravina, che a me pare migliore dell’altro del 2003 (“Sylvia”) con Gwyneth Paltrow (attrice bella e brava come la Gravina, incolpevole di ciò), il quale non rende a mio avviso la reale portata della poetessa di Boston. Alla vita e alla poetica di Sylvia Plath ho dedicato due saggi in cui opero un’analisi seguendo un innovativo modello junghiano. Al lettore desideroso di approfondimenti rivolgo l’invito a leggere i miei lavori (dove spiego le ragioni del rifiuto di tradizionali schemi interpretativi freudiani e gravesiani): “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”. Credo che l’autentica scrittrice, di cui qui riporto il profilo biografico estratto dal mio primo saggio, emerga in maniera reale utilizzando strumenti analitici elaborati da Carl Gustav Jung: la poesia plathiana non è il prodotto di una vocazione nevrotica, è invece una via di risanamento del disagio. In questo contesto hanno il potere di far comprendere la poetica della poetessa bostoniana in maniera nitida diversi concetti junghiani: la dialettica “anima/animus”, il “processo d’individuazione”, l’archetipo della Grande Madre, e infine il concetto di “ombra”.
La vicenda plathiana è testimonianza dell’urto che incontra la modalità frommiana di vita dell’essere, dimensione dell’esistere che lei accolse elevandosi a dignità superiore. La distopia dell’avere, agitante le menti volgari, produce un mondo il quale mira ad annientare la creatività, la condivisione del vero, la fruizione del bello, la pratica del giusto. La personalità della Plath è quella di una campionessa dell’essere entrata nell’immortalità.
Sylvia Plath Schober (di Otto e Aurelia; il suo nome fu un omaggio paterno ai pregi terapeutici della salvia) nacque a Boston il 27 ottobre 1932. 
Il padre (1885-1940), divorziato senza prole da un primo matrimonio alla fine degli anni ’20, era un Tedesco emigrato negli USA quindicenne, che, respinta la giovanile intenzione di farsi pastore luterano e rigettata la passione religiosa, divenne entomologo e professore universitario. La madre (1906-1994) proveniva da un nucleo familiare originario dell’Austria. Allorché i coniugi Plath Schober ebbero l’altro figlio Warren (nato nel 1935) si concentrarono su di lui in ossequio a una mentalità maschilista: la cosa segnerà profondamente Sylvia, facendole valutare la condizione femminile una disgrazia e un limite. Il 5 ottobre 1940 perse il padre malato di una patologia diabetica (lui credeva di avere un cancro, e non accettò assistenza medica se non quando fu troppo tardi per impedire conseguenze): l’evento fu nei confronti di lei e dei familiari molto traumatico, e il fattore che accelerò il moto della sua parabola depressiva. Infatti nel complesso familiare subì la saturazione di quel clima di malattia al punto tale di sentirsi responsabile dell’accaduto a causa dell’ostilità nei riguardi del padre da sempre distante da lei. Fu quello il periodo in cui cominciò a scrivere poesie (la prima pubblicatale fu sul “Boston Herald” del 10-8-1941). 
Da adulta rammenterà la suggestione delle ninne nanne nel darle spunto d’interesse alla musa. Fu costretta all’ultima annata di scuola elementare a essere ripetente per una mera questione di età, affinché non si vedesse poi di fronte compagni più grandi di lei. Nel ’47, in virtù della sua abilità a dipingere, ricevette un premio scolastico. Nella giovane Plath la poesia e lo scrivere assunsero un ruolo centrale nell’esprimere il significato dell’esistere umano, di strumenti tesi alla conversione dell’accidentale in metafenomenico, allo scopo di volgerlo nell’immutabilità dell’ideale: tutto ciò al di là di un intento di lucro, comunque da lei ritenuto utile, non così disprezzabile, nella misura dell’“avere esistenziale” frommiano. 
Nel 1950, al termine del liceo, proseguì a studiare, dopo aver ottenuto una borsa di studio, allo “Smith College” di Northampton. Iniziò presto a farsi conoscere nel mondo editoriale con i suoi testi (tra cui figuravano pure racconti). Un infortunio con gli sci durante quel primo anno accademico la costrinse a una degenza ospedaliera dovuta a una frattura a una gamba. Questa situazione la spronò a pianificare un decalogo operativo da applicare al suo ritorno agli studi: si propose mete alte, ma al contempo mantenne basse le aspettative.
All’università scriveva su “The Smith Review”. Il primo posto in un concorso organizzato dalla rivista di moda “Mademoiselle” di New York, grazie al racconto “Sunday at the Mintons”, le aprì la strada a un piccolo periodo di pratica in qualità di redattrice presso di loro nella seconda metà del ’53. Finito l’esercizio, delusa dal fatto che non le avevano consentito di incontrare Dylan Thomas (1914-1953), da lei moltissimo ammirato (le cui declamazioni aveva ascoltato dal vivo quell’annata in USA), la sua depressione, rinvigorita da sensazioni di inadeguatezza, incompletezza, isolamento, e dal rifiuto di una realtà circostante avvertita come condizionatrice (a cominciare dal difficile rapporto con la rigida madre), la indusse a una sorta di test di adeguatezza al suicidio. La strategia medica antidepressiva a lei riservata, basata sull’elettroconvulsione, peggiorò le cose. Nell’agosto del ’53, appartatasi nella sua abitazione dentro la cantina, tentò, senza riuscita, di togliersi la vita, usando sonniferi (vomitati perché ne ingerì troppi). I suoi dubbi, le sue insicurezze (l’Università di Harvard, ad esempio, le aveva rifiutato l’ingresso a un seminario di scrittura) circa il futuro hanno una radice remota, che i suoi diari, iniziati nel ’44, rivelano sin dal principio della loro redazione (alla vigilia del tentato suicidio, tempo in cui leggeva Freud, le annotazioni si interruppero: saranno riprese in seguito, così come le letture freudiane). 
Intanto venne ricoverata per essere curata al McLean Hospital di Belmont, dove subì più volte la pratica terapeutica dell’elettroshock. La risposta di aggressività nei confronti della madre le è rimbalzata addosso: la figura materna rimarrà nei suoi riguardi sempre opprimente tribunale (da cui ottenere benevolenza e consenso) e altare di sacrificio a cui offrirsi in olocausto (i tentativi di trovare la morte). Ciò le causerà inoltre una difficoltà a scrivere, a produrre, giacché vedeva sua mamma dalla prospettiva negativa di uno junghiano archetipo di Grande Madre: una divoratrice, che la poteva espropriare di tutto, mortificante, pretenziosa di tradizionale borghese stabilità verso la figlia. 
La percezione dell’esistenza come un ambito da riempire in maniera consona spronò invece la Plath allo studio, a leggere, e all’adozione dello scrivere nella veste di personale strumento di indagine e di elevazione. Ella cerca di avvicinarsi alla soglia della perfezione divina, e al fine di imitarla coglie e sfrutta le sfaccettature del logos. In una lettera di fine ’49 alla mamma aveva espresso il desiderio di appellarsi «la ragazza che voleva essere Dio [the girl who wanted to be God]». L’insoddisfazione e l’inappagamento del suo ego divennero ulteriori sproni del suo scrivere che voleva sfuggire il transeunte: e la più ricca miniera di non temporale è l’interiorità che lei riversò nell’agire e nei suoi scritti. 
Le sue azioni e i suoi elaborati letterari diverranno simulacri di se stessa, immagini consegnate all’eterno: il logos da linguaggio empirico sale al piano ideale dei concetti dove si cristallizzano le sue espressioni poetiche, cosicché la di lei ricerca di affetti, di delicatezza, la porta a un confronto dialettico con la realtà quotidiana la quale a tratti variabili la sconcerta, la delude, la disorienta. Però lei è così brava che riesce a costruire una scrittura che non muore sulla carta: dinamica, carica della composta energia trasfusale dall’autrice; il suo dire e il suo fare rimarranno “attuali” nella forza di significazione che lei ha saputo e voluto dare. Terminato il recupero, mediante il sostegno economico della scrittrice e filantropa Olive Higgins Prouty (1882-1974; la quale aveva sofferto, superandoli, simili problemi), attraversò nel ’54 una fase di positivo sviluppo: riprese gli studi, ebbe un nuovo ragazzo (non sarà l’unico nuovo) e trascorse pure un periodo ad Harvard. Quindi completò nel 1955, sempre con l’aiuto pecuniario della Higgins Prouty che le garantiva la borsa di studio (anche lei aveva studiato allo “Smith College”), il percorso universitario in lettere, scrivendo una tesi su Dostoevskij, con la massima valutazione. Lei e la sua benefattrice rimarranno sempre in contatto. Una nuova borsa di studio le consentì di frequentare l’università a Cambridge. Fece dei viaggi durante quel primo inverno inglese: in quest’occasione stette in compagnia di un suo ex, ma rimasta in sospeso per via di una scelta di lui, ella ne rimase molto abbattuta. E sommata una serie di deludenti varie impressioni, sentì, a febbraio del ’56, il bisogno di parlarne con uno psicanalista. A Cambridge, dove ebbe modo di far notare le sue doti artistiche, ormai sentimentalmente quasi liberatasi, poiché si era lasciata alle spalle soprattutto con la partenza dagli USA i vecchi legami amorosi, fece in quello stesso mese la conoscenza di Edward James Hughes (1930-1998), chiamato Ted (secondo lei erano entrambi tipi psicologici introversi): era il “colosso” che attendeva (il suo uomo perfetto era imponente altresì sotto il profilo intellettuale, come chiariva in una lettera del ’53 alla madre). Uniti realizzavano la filía del “Liside” e del “Laelius de amicitia”. 
L’incontro avvenne la sera del 25 a una festa, giorno in cui lei aveva iniziato dallo psicanalista. Aveva letto dei testi di Hughes, restando colpita dal suo talento. Nei due giorni seguenti la reciproca fulminazione lei scrisse la profetica lirica “Pursuit”. 
Se valutiamo l’incontro tra Sylvia Plath e Ted Hughes sotto un’ottica meno superficiale, psicologica (e più in particolare junghiana), ci rendiamo conto che tale poeta è stato scelto in funzione di figura-terapeuta. Entrambi si incontravano sullo stesso piano di linguaggio: la poesia. Si mise in moto, in modo opposto rispetto all’ordine reale di trattamento junghiano di un soggetto, un meccanismo paziente-analista partito dal ritrovarsi già in sintonia. 
L’innamoramento della poetessa di Boston ha dunque la forma di un transfert sui generis all’interno di un ambito terapeutico tradizionale. Questo cammino di approdo non fu tuttavia liscio. Lei tentennava, pensando a quel suo ex da cui sperava qualcosa. Passata una notte da Hughes a Londra, poi lo andò a cercare a Parigi. Non trovatolo si recò in Italia con un altro ex, Hughes però le scrisse parole d’amore che la spinsero a tornare definitivamente da lui. Finirono perciò con lo sposarsi in un joyciano 16 giugno (con gran riservo perché lei si preoccupava che le condizioni di concessione della sua borsa di studio non glielo consentissero: al matrimonio, in una chiesa di Londra, c’era soltanto la di lei madre). Condivideranno fra l’altro una passione per l’occulto e l’interesse per lo sciamanesimo. Jung mostrò attenzione nei suoi studi sull’inconscio collettivo alle tecniche divinatorie (alcune della quali, a suo avviso, erano in grado di intercettare il piano collettivo transpersonale della psiche, al di là della nostra consapevolezza): la Plath cita i tarocchi, ritenuti da Jung riproposizioni archetipiche capaci di aprire varchi, seppur poco chiari, alla volta dell’inconscio collettivo (egli le chiama infatti “nuvole di cognizione”), nella sua celeberrima lirica “Daddy” facendo uso di una significativa ripetizione. Il fatto che sia stato scoperto un filo tra Sylvia Plath e la simbologia alchemica, legame che rinvia a una possibile sua lettura dell’opera junghiana dedicata al rapporto fra alchimia e psicologia, alla luce di quello che dico nel mio saggio, non è poi così eclatante o stupefacente, poiché tale filo è un effetto, non una causa, nella sua produzione poetica. Intanto l’allora non ancora emerso poeta Hughes aveva abbandonato un suo impegno lavorativo a Londra per stare vicino alla Plath a Cambridge. Egli stesso confessò al fratello in una lettera del ’57 l’importante apporto della scrittrice bostoniana nei suoi esordi letterari: ciò conferma la natura “junghiana” della loro relazione, in cui il “contagio positivo” sulla sua persona, che riveste la mansione figurata di terapeuta nei confronti del disagio di Sylvia, è evidente (Jung parla dell’analista come di qualcuno che impara dal paziente e allarga i suoi orizzonti). Sposatisi visitarono Parigi e Madrid, e si stabilirono pro tempore a Benidorm nello Yorkshire (dove vivevano i genitori di lui, ai quali in un primo momento non aveva detto niente del suo matrimonio). Allontanatisi in autunno allo scopo di assolvere ai propri impegni, decisero di comunicare alle autorità scolastiche cui la Plath rispondeva la notizia della loro unione, ricevendo un positivo riscontro e niente di quanto ella paventasse. Completati gli studi scolastici di lei, si ritrovarono nel giro di poche settimane nella loro abitazione di Cambridge (lui aveva ottenuto un incarico semestrale di docenza). Nella prima metà del ’57 il successo arrise a Hughes: spinto dalla consorte a partecipare a un concorso newyorkese di poesia, la sua silloge “The Hawk in the Rain” ottenne riconoscimento tale da essere pubblicata in Usa e nel Regno Unito dove raccolse ulteriore apprezzamento (l’edizione inglese riportava una dedica alla moglie). 
La coppia, posteriormente a un soggiorno a Benidorm, risedette negli Usa dall’estate del ’57 all’autunno del ’59 (soprattutto in Massachusetts): la mamma di Sylvia organizzò un festeggiamento di accoglienza con molti invitati nella sua casa. 
Lei ritornò in qualità di docente per un anno nello “Smith College”. Non si sentiva sicura in simile ruolo (dove la madre vedeva il di lei futuro piuttosto che nell’insicurezza di una carriera di scrittrice), e in più questo suo rientro dalla parte dell’insegnamento contemplò un ambiente poco caloroso ed entusiasta. Alcune sue parole dal diario del ’58 (9 febbraio) hanno delle tangenze con lo sfogo contenuto nella lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513: entrambi sono delusi, disgustati, dal mondo che li circonda, e conseguono ristoro, sollievo, piacere, nel distacco serale in un’intimità di autentica edificazione con la vera umanità. Il carattere di lei, in particolar modo, era combattuto fra una inclinazione al ritiro dell’“essere frommiano”, al fine di dedicarsi allo studio e alla produzione, e una naturale, comune, vocazione al rapporto umano (ecco in azione la dialettica “introversione/estroversione”). I due consorti si trasferirono, dopo aver vissuto a Northampton da agosto a novembre, a Boston con l’obiettivo di esercitare l’esclusiva professione di scrittori; ciò nondimeno Hughes non respinse la prospettiva di insegnare sei mesi all’università del Massachusetts all’inizio del ’58 (l’annata successiva fu gratificato da 5000 $ di un premio). 
La coppia di sposi Hughes Plath diventò inoltre amica del poeta pacifista William Stanley Merwin (n. 1927; tra l’altro, autore di traduzioni dalla letteratura italiana), il quale apprezzò le capacità letterarie dei singoli coniugi. Durante l’ultimo segmento di tale periodo americano Sylvia Plath si fece assistere, all’insaputa di Ted, da una psicanalista (la stessa dottoressa che l’aveva presa in cura al McLean Hospital). Aveva a quell’epoca ottenuto pure un lavoro presso un ufficio di un ospedale psichiatrico. In questa fase evolutiva della sua poetica ebbe l’opportunità di ascoltare a inizio del ’59, presente con altri oltre a lei l’amica Anne Sexton (1928-1974; “poetessa confessionale” perita suicida), Robert Lowell (con William Dewitt Snodgrass fondatore della corrente letteraria dei “poeti confessionali”). Sylvia Plath ammirava i versi di Robert Lowell (1917-1977; nato a Boston), noto in virtù delle sue posizioni avverse ai pregiudizi razziali e alla guerra, ma anche a causa dell’aver sofferto di pazzia: il di lui “confessionalismo”, siffatto approccio intimo di analisi rivolto al fruitore, usciva da simile travaglio (“Life studies” del ’59 fu la sua opera che influì sulla poetessa sua uditrice). Le due poetesse Plath e Sexton amiche mediante Lowell, bevendo, si intrattenevano sul tema della morte e dei loro passati falliti suicidi (a entrambe era stato diagnosticato un disturbo bipolare). Le loro personali concezioni della poesia si influenzarono a vicenda. 
La Plath rimase colpita in senso favorevole dal fatto che l’amica discutesse nei suoi versi temi molto intimi e delicati nei confronti dell’opinione comune, inerenti alla famiglia e alla sessualità: “To bedlam and part way back” della Sexton è del ’60. Sylvia aveva ritrovato in una idealizzata Anne Sexton, la quale allora a Boston contemporaneamente a lei si sottoponeva a psicoterapia, la materia dei suoi problemi. Però nell’altra intravisti in una superiore ed esplicita veste di consapevolezza e accettazione (le due, nei loro colloqui, parlarono altresì delle loro esperienze di cura): ciò era fra le motivazioni della sua simpatia dai risvolti tuttavia ancora in parte frustranti. I genitori della Sexton, appartenenti alla borghesia media e tradizionalista, si erano rivelati inquietanti nei riguardi della figlia. Nel permanente vuoto affettivo rimasto a Sylvia Plath in seguito alla perdita del padre, la problematica relazione con la madre, che a suo avviso la riteneva, più o meno consciamente, responsabile della morte del marito, l’ha segnata tutta la vita. In aggiunta a questo rimproverava alla mamma un atteggiamento poco espansivo con lei, istituzionale, nel suo compito materno, il quale veniva quindi dalla poetessa percepito come frustrante termine di ostacolo (pensiamo alla madre di Giacomo Leopardi). Fatti alcuni viaggi (tra cui in particolare quello ricco di spunti per lei a Yaddo grazie ai paesaggi) Sylvia e Ted tornarono in Inghilterra, spinti dalla sua prima gravidanza (da cui nacque il primo aprile 1960 Frieda Rebecca, superato un di lei scoraggiante problema di infertilità). I due abitarono, trascorso il tratto festivo a cavallo di fine del ’59 a Heptonstall, dalla sorella di lui (la quale non gradiva Sylvia), dapprima a Londra, e da agosto del ’61 a North Tawton (in campagna, nella residenza di “Court Green”). 
L’ascesa del marito la compiaceva da sempre, sebbene si sentisse subordinata nelle proprie ambizioni, e nonostante i di lei parziali insuccessi presso editori: il precedente fatto di fargli mancare la paternità le era sembrato una diminutio capitis nei di lui confronti. 
“The Colossus and Other Poems”, selezione di testi poetici della Plath (recante la dedica “For Ted”), andò in stampa nel ’60, come “Lupercal” di Hughes. Detta raccolta plathiana uscirà negli USA nel maggio del ’62. All’inizio del ’61 lei ebbe un aborto, e poi si sottopose ad appendicectomia: sembra che la redazione del romanzo “The Bell Jar” sia iniziata mentre subiva questo lungo ricovero rievocantele altri traumatici ricordi, ma nel quale il periodico “The New Yorker”, che già aveva avuto modo di apprezzarla in precedenza, si offrì di pubblicarle delle sue nuove liriche. In quell’anno, passato un soggiorno estivo in Francia, dove stettero a contatto con Merwin, l’appartamento londinese di loro proprietà fu dato in affitto al poeta canadese David Wevill (n. 1935) e a sua moglie Assia (1927-1969; al terzo matrimonio nel ’60). Lei ottenne un premio di 2000 $ al termine del’61 conseguito da un suo racconto. Successivamente alla nascita dell'altro figlio, Nicholas Farrar, il 17 gennaio 1962 (annata in cui la scrittrice di Boston ottenne un premio letterario), il rapporto di coppia tra Ted e Sylvia si guastò a causa del tradimento di Hughes, che coltivava un legame assieme ad Assia Wevill (uccisasi in forma emulativa della Plath assieme alla figlia Alexandra avuta da lui nel ’65). La poetessa bostoniana, sulla quale peraltro era gravata la cura della casa, lo aveva scoperto apertamente durante quell’estate in cui la mamma era con lei in Inghilterra. Nel luglio di quel ’62 egli, smascherato, abbandonò la famiglia e “Court Green” per l’amante e Londra. Sylvia, che nutriva dei sospetti già da un paio di mesi e a maggio (prima dell’arrivo della madre) aveva cercato di togliersi la vita alla guida dell’auto gettandosi fuori della carreggiata, gli aveva bruciato tutte le di lui carte. I coniugi in disaccordo si recarono a settembre in Irlanda, sotto un pretesto mondano, con lo scopo di chiarire il da farsi, e con Hughes che la lasciò lì allontanandosi. Consumatasi la separazione legale anche la Plath, respinto il sollecito della mamma a far ritorno da lei, a dicembre, desiderosa di autonomia, si trasferì da North Tawton a Londra. E andò a risiedere, in compagnia dei figli, in un appartamento che a suo tempo aveva ospitato William Butler Yeats (1865-1939). Qui concluse il suo unico romanzo: “The bell jar”, stampato e diffuso sotto uno pseudonimo (Victoria Lucas) nel gennaio del ’63, il quale non ottenne subito quel successo da lei atteso. 
Alla vigilia della scomparsa stava pianificando la pubblicazione di “Ariel”, la selezione attingente poesie dal suo fecondissimo periodo degli ultimi mesi. La pesante e difficile situazione da gestire la spinse a mettere in atto un nuovo suicidio, interpretato da Alfred Alvarez (n. 1929; scrittore, amico della poetessa e di Hughes) più come un segnale volto a chiedere sostegno che non come concreto definitivo progetto di morte. A quell’epoca Assia Wevill era rimasta incinta: abortirà dopo la scomparsa di Sylvia. Purtroppo in quel lunedì 11 febbraio del ’63 le cose, forse, non si svolsero come auspicate dalla Plath (il venerdì precedente aveva visto Ted, recatosi a vederla perché aveva ricevuto una lettera d’addio di Sylvia): lei aspettava di mattina che venisse a trovarla una bambinaia mandata dal dottore che la stava assistendo in quei giorni; e il fatto che avesse annotato sopra un foglietto il numero di costui nella richiesta di farlo intervenire sistemata per un vicino d’appartamento induce a credere valida la prima ipotesi accennata. Intorno alle 5:00 preparata la colazione dei figli e messo su carta “Edge”, il suo ultimo componimento, il gas della cucina la uccise, in ogni caso, prima che il mondo potesse salvarla. Hughes si prese cura dei manoscritti di Sylvia Plath: accusato da viva di averla abbandonata, e poi di aver ritoccato molti versi di lei, mirando a diminuirne il pregio, in funzione autoprotettiva nel clima negativo rimproverantegli la colpa della morte della poetessa, fece credibilmente scomparire la parte dei diari che lo riguardavano (su di lui è gravata l’etichetta di marito fedifrago). Mentre la di lei madre cercò di impedirgli la stampa di testi i quali a sua volta riteneva non idonei alla divulgazione. Duro lo “I accuse” di Robin Morgan (n. 1941; scrittrice e attivista politica femminista e pacifista) a carico di Hughes in “Arraignment”, lirica contenuta nella di lei prima raccolta uscita nel ’72 dal titolo “Monster”. Lo scontro sorto fra la Morgan e Hughes si chiuse per vie legali nel ’74 con la messa all’indice di “Monster”, che allora fu diffusa clandestinamente. 
A proposito della pubblicazione postuma delle opere della Plath: “The Collected Poems” uscì nell’81 (l’annata successiva ottenne il “Premio Pulitzer”), dopo “Ariel” (con prefazione di Robert Lowell), “Three Women: A Monologue for Three Voices” (il cui testo fu trasmesso alla radio nell’agosto del ’62), “Crossing the Water” e “Winter Trees” (rispettivamente pubblicazioni del ’65 la prima, del ’68 la seconda, del ’71 le altre due; la “restored edition” di “Ariel” del 2004, rispettante la volontà progettuale nota della Plath, reca un’introduzione della figlia). Gran parte delle di lei lettere in possesso della madre (inviatele tra il ’50 e il ’63, in tutto sette centinaia) andarono in stampa nel ’75 (“Letters Home”), i diari sono stati pubblicati in due edizioni (1982 e 2000). La tesi di laurea (“The Magic Mirror”) è stata data alle stampe nell’89 (il racconto “Among the bumblebees”, un suo lavoro universitario, fu edito nel ’78). Altre diverse opere hanno visto la luce nell’arco degli anni: “The Bed Book” nel ’76, “The It-Doesn’t-Mutter-Suit” nel ’96, “Collected Children’s Stories” e “Mrs Cherry’s Kitchen” nel 2001 (si tratta di lavori offerti a un pubblico giovanissimo); “Jonny Panic and the Bible of Dreams” nel ’77. “Birthdays Letters”, una silloge di 88 poesie di Hughes pubblicata nel 1998, recupera e affronta temi del suo matrimonio con Sylvia (la loro figlia, la poetessa e pittrice Frieda, preparò la copertina del volume). Il 16 marzo 2009 Nicholas Hughes, affetto da depressione, si è ucciso impiccandosi. La serie di suicidi gravitata attorno a Ted Hughes è la materia esaminata in “Arraignment”. L’autrice lancia una terribile e violenta “accusa” inerente alle scomparse di Sylvia Plath, Assia Wevill e figlia, incolpando anche il mondo della critica letteraria di favoreggiamento a danno della reputazione della prima e a vantaggio di colui che giudica un assassino poiché induttore di morte. 
Parla di “femminicidio”: «Gynocidal movement». Circa le vicende di Sylvia Plath non si può far a meno di aggiungere a questa catena il suicidio di Anne Sexton. Lei e la Plath erano rimaste in contatto. E ciò viene menzionato nella sua lirica in memoria dell’amica, datata 17 febbraio ’63, intitolata “Sylvia’s Death”. In essa la Sexton chiede quale fosse la ratio del cedimento della Plath verso la seduzione della morte. E dopo i ricordi bostoniani, la chiama affettuosamente «piccola mamma… dai capelli biondi [tiny mother… blond thing; i capelli naturali di Sylvia erano di colore castano chiaro, ma ebbe a usare a volte una tintura biondo platino posteriormente al primo tentato suicidio]». Sylvia Plath alla fine del ’62 aveva esternato la sua antipatia per le scomposte “ragioni del cuore” (sensibility), i cui contenuti non fossero vagliati da un’“intelligenza vigile” (sense), e dichiarò che i suoi versi traevano sostanza dal suo vissuto interiore (e, come rammenterà Hughes, con particolare attinenza all’infanzia: una cura mirata pure al disinnesco di eventuali contenuti destabilizzanti). 
Alla forma logica dell’essere (pensiero, concetto; linguaggio, parola) lei accompagna la materia dinamica, il complementare energetico, che è l’eros: l’essere è costituito di logos ed eros. La sua poesia li rappresenta nella loro inscindibile perfezione unitaria e ideale. 
Il tenore lirico di Sylvia Plath è accostabile a quello di Saffo: entrambe suonano la stessa cetra. Il melos sarà di certo differente, ma la qualità è in tutte due i casi eccellente. 
Seamus Heaney (1939-2013; premiato col Nobel per la letteratura nel ’95, e unito a Ted Hughes da stretta amicizia) ha colto infatti nella scrittrice bostoniana l’elevata altezza del binomio musicale/semantico, che nelle splendide declamazioni radiofoniche della poetessa lei medesima traduce nell’espansione magnetica del suo verso, quasi fosse il canto di una sirena: Hughes, nel finale di una delle poesie di “Birthday Letters” (“18 Rugby Street”), la definisce «magra, agile, sgusciante come un pesce [slim and lithe and smooth as a fish]», e lei stessa da piccola si qualificava «sea girl».