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giovedì 29 settembre 2016

IL PARRICIDIO MARXIANO DI LOCKE FIGLIO D’ABRAMO

di DANILO CARUSO

Intercorre uno strano rapporto tra Locke e Marx, un legame lungo una scala di pensiero, il quale usando figura metaforica definirei di sangue filosofico: Marx è figlio illegittimo di Locke. L’autore de “Il capitale” viene di solito posto sulla scia di Hegel a proposito della paternità concettuale, ma nel cuore di Marx giace un DNA lockiano. L’empirista inglese e il filosofo tedesco hanno al centro delle loro costruzione il primato del momento pratico-empirico, che ognuno sviluppa secondo uno specifico punto di vista, il quale tuttavia rimane innestato sullo stesso tratto di considerazione della realtà. Sotto simile profilo più autentico e saliente rispetto all’altro che sosterrebbe l’inesistenza del Marxismo al di là di Hegel, Marx è un figlio, non riconosciuto come tale, dell’ideologia liberale e liberista inglese. In questa relazione l’effetto non è accostabile alla causa, giacché il rapporto è appunto dialettico (in senso hegeliano). Prevale l’alterità marxista sull’omogeneità ideale di fondo. Spinoza asserisce che la causa e l’effetto devono avere un quid di sintonia il quale non li renda perfettamente estranei. Detta lezione supporta Hegel nell’elaborazione della sua dialettica: ogni tappa dell’essere fenomenico è attraversata da un filo motore di vitalità, confronto rispetto alla precedente; il susseguirsi non è una dinamica illogica di pezzi sconnessi, bensì qualcosa di paragonabile a un legame padre-figlio. Sia in Locke che in Marx la menzionata primazia esteriore al soggetto di un’attività produttiva li rende consanguinei riguardo all’attribuzione di paternità. Hegel è un padre putativo senza di cui ci sarebbe stato forse comunque un Marxismo: diverso, magari catalogato in seguito dagli storici nel novero dei socialismi utopici. Il fascino ideologico di Marx sta nella denunzia dell’ingiustizia sociale, nel mettere sul banco degli imputati colpevoli con precise accuse. Egli reagisce allo schema liberal-capitalista borghese a mo’ di un figlio di fronte a un padre tradizionalista autoritario. Locke considera l’uomo una sorta di surrogato davanti alla Natura mediata dall’empirico (alquanto hegeliana questa alienazione da sanare): da un castello esterno, e non immanente, gli esseri umani troverebbero il lume a guida del loro agire (l’esperienza informerebbe tutto l’uomo). La postulazione lockiana di un’idea di Dio così evidente al pari di tutte le altre, nell’ottica del suo empirismo, appare contraddittoria: è un concetto metanaturale che un empirista coerente non può sostenere in tal guisa. Il Dio lockiano non rientra in un margine di riflessione empiristica: è un postulato, è una proiezione nevrotica. È un garante ontologico della bontà dell’ordine e dei principi liberali (i quali considerati in assoluto e delineati in modo lucido non sono un parto d’insania: da premesse false possiamo dedurre affermazioni vere). Siffatto Dio lockiano regredirà poi allo stadio di mano invisibile. In Marx, rivoltatosi contro l’ordine liberale costituito, l’umanità recita il ruolo di un’altra specie di vittima dell’attività esterna da essa promanante. La prassi empirica sebbene sia frutto umano diventa la nuova prigione, e ad avviso dell’autore de “Il capitale” dovrebbe divenire lo specchio in cui riconoscersi. Su di essa egli cala la dialettica hegeliana, rimuovendo che l’uomo è in primis un essere spirituale e che il suo baricentro è nella psiche e non nella produzione. Locke e Marx hanno alienato l’uomo ponendo al di fuori il faro. La tradizione razionalistica francese, da Cartesio culminata nel Tedesco Kant, resisterà al tentativo di sopravvento della res extensa. Locke e Marx deducono l’uomo da questa. Il materialismo storico è una concezione fuorviante: il dire, su base materialistica, che soggetti intelligenti, non necessariamente spirituali per Marx, ma in ogni caso pensanti con possibilità di libertà, siano subordinati al loro fare/esperire, svincolandoli da un livello di riflessione di altro valore, equivale a dare un primato a una dimensione alienante (come nel pensiero lockiano), e perciò a indicare una patologia mentale quale condizione normale. Marx ha verso Locke un complesso edipico (termini del confronto da intendersi pure nella veste di simboli di un macroconflitto storico). Fra i due c’è uno scontro generazionale in senso lato (per rendere l’idea pensiamo al ’68). La comprensione – differente da una giustificazione – degli eventi storici richiede strumenti analitici vari. La sola economia non può spiegare l’umanità, c’è bisogno del contributo di diverse discipline. Marx ha preso la dialettica hegeliana e ne ha fatto un uso improprio. Animato da condivisibile e ammirevole slancio nella lotta contro le ingiustizie, si è lasciato prendere la mano. Ha dato una patina di razionalità al suo sistema grazie alla dialettica hegeliana, però aver appiccicato essa sopra l’empirismo lockiano non ha prodotto integrale scientificità. Anzi sembra esserne venuto fuori un mostro di Frankenstein molto pericoloso. L’autore de “Il capitale” ha preso tutti i diseredati, in maniera astratta, e li ha messi da una parte; e dall’altra ha collocato gli sfruttatori. Tipi sociali che purtroppo ci sono stati, e ci sono tuttora; tuttavia non divisibili così facilmente in due sfere non inciampando in una forma di fanatismo gnostica. Dagli sfruttatori, a ritroso, Marx ricava attraverso premesse non sempre razionali aspetti storiografici accettabili se inquadrati nella giusta orbita. Esistono classi sociali, esistono interessi di parte, però il comportamento umano è determinato dalla psiche: è influenzabile dall’ambiente, ma questo non ha un’egemonia ontologica (la quale Locke e Marx invece riconoscono). Marx non avrebbe potuto dedurre il concetto di lotta di classe se privato della dialettica hegeliana: il concetto marxiano è un’astrazione generalizzante impossibile nell’ambito del materialismo, il quale da solo consente di raggiungere un bellum omnium contra omnes sviluppantesi in macrofasi. Grazie alla dialettica hegeliana il marxismo diventa dogmatico nel postulare la rivoluzione, la dittatura del proletariato, la fase socialista e quella finale comunista. Detto dogmatismo è il mostro di Frankenstein responsabile di tantissimi mali nel ’900. Marx è debitore nella sua pars destruens degli economisti inglesi: questo è l’autore scientifico, quello analizzante l’ordine sociale del padre e che ne evidenzia i difetti. Il Marx autore della pars costruens brancola nel buio della ragione: degrada il potere di applicazione della dialettica hegeliana a un bellum servile irrazionale. Nella sua prospettiva del futuro a tanti padroni se ne sostituisce uno, un oppressivo Stato socialista (criticato, tra i vari, da Simone Weil). Alla fine allo scopo di risolvere il problema sociale, si pone la necessità marxiana di distruggere il problema medesimo: disintegrare l’umanità nella definitiva fase comunista. A tal riguardo non è da trascurare che sia desiderio di liberisti estremisti uno Stato ridotto ai minimi termini, il quale non infastidisca il borghese bellum omnium contra omnes. Marxisti e liberisti integrali sembrano volere all’ultimo una meta quasi identica. Nel corso del segmento avente per estremi Locke e Marx sta appeso Rousseau, simbolo del contrasto interiore del liberal-socialismo: la contraddizione inerente alla società borghese rilevata da Marx, società travagliata nella sua maturazione ideologica dalla ricerca di un equilibrio tra libertà, uguaglianza e solidarietà. Locke, Rousseau (illuminista eretico), Marx si ritrovano lungo una gamma di pensiero sensista-sentimentale, la quale non è razionalista in senso puro. Rousseau è un ponte tra Locke e Marx, ulteriore dimostrazione di un agire spirituale degli uomini nella storia a volte non vigilato da cosciente razionalità. Spesso l’azione cade in balia di emozioni e passioni promosse dall’esterno, non accompagnate da opportuna guida della ragione; e sottolineo guida poiché l’uomo è sì un essere razionale, ma non può sopprimere il suo positivo lato emotivo non annientando l’anima stessa. Il pensiero marxiano è una reazione generazionale alla dottrina liberal-liberista. La dialettica liberali/comunisti potrebbe essere una nuova figura, posteriore, della “Fenomenologia dello Spirito”. L’autore de “Il capitale” dal canto suo riconduce ogni divenire sociale allo scontro tra servi e padroni, dove chi vince è destinato prima o poi nello spazio sociopolitico a essere sconfitto ed emarginato a sua volta. Tutto sommato questa è una constatazione banale, a posteriori; mentre a priori si proietta in un’escatologia gnostica, inspiegabile perché dogmatica, e foriera di sventure. Il fatto che il dominatore resti al suo posto sin quando non viene rimpiazzato è un’asserzione tautologica. Il confronto tra sistemi pur sempre di pensiero produce una dialettica spirituale (non sempre scevra di nevrosi). Le generazioni di cui ho parlato sono metafore, una summa di connotazione di un tratto temporale, altresì epoche. Mi sono servito del concetto e del termine di generazione per la sua valenza psicologica. L’impostazione da me data alla trattazione è di richiamo junghiano. Il materialismo marxiano ha mostrato sintonia solo con gli studi freudiani (di eguale vocazione antimetafisica e materialistica). Tuttavia Freud non è da pensare in contrapposizione a Jung. Gli studi dell’Austriaco hanno solo un carattere di parzialità e non di erroneità. Il complesso marxiano nei confronti di Locke è di natura edipica. Dov’è la donna? È la Grande Madre junghiana, l’archetipo femminile della Natura. Natura da cui Locke pretende di ricavare leggi nevrotiche, che consentano uno sfruttamento di tutti i suoi settori. Le leggi di natura lockiane non sono postulazioni razionali; sono autorizzazioni, legittimazioni richieste e scaturenti da una prassi attivistica. Jung distingue tipi caratteriali in base alla coppia delle funzioni razionali di giudizio del soggetto (ragione e sentimento) e a quella delle irrazionali di percezione (intuizione e sensazione). Lo studioso svizzero accanto alla dicotomia introversione/estroversione tiene conto di quella razionale/irrazionale. La filosofia di Locke è “sensista estroversa – sentimentale introversa”, non si appoggia alla facoltà del pensiero logico. Egli al posto della ragione ha messo una nevrosi: sentimento-di-libertà non è lo stesso di concetto-di-libertà. Medesima cosa fanno Rousseau e Marx, operanti in analogo campo psichico e con modalità proprie. Le leggi di natura lockiane consentono di mettere una mano (invisibile) sulla Natura. Questo investimento di libido junghiana che si dispiega mediante facoltà non precipuamente razionali ha i connotati di uno stuprum Naturae. Qual è la reazione di Marx al cospetto della violenza? È una risposta edipica, giacché i tipi psicologici sono su un piano freudiano. La psicologia di Freud è un’introspezione perfetta della società capitalistica. Jung ha invece sondato un campo più vasto. Freud, curando i malati del capitalismo, ha generalizzato il suo modello. Marx e Freud sono accoppiati in virtù delle loro affinità (ad esempio da Marcuse). Il primo vuole sostituirsi al padre Locke (fase socialista del marxismo) e rientrare – sulla falsariga di Rousseau – nel grembo della Grande Madre (fase comunista). L’autore de “Il capitale” ha profetizzato l’avvento della rivoluzione proletaria in Inghilterra. Simile profezia non ha un valore scientifico convenzionale. Durante la metà dell’Ottocento un osservatore politico, al suo posto, avrebbe detto in Francia (dalle tante rivoluzioni), terreno fertile a beneficio di un radicale cambiamento. Però Marx sceglie l’arida Inghilterra, poiché decide di uccidere il padre: il sistema capitalistico crollerà quando muterà il modello organizzativo sociale angloamericano, questa è la profezia (junghiana?) di Marx (il nemico si sconfigge al suo interno, non tagliando qualche testa dell’Idra). Locke e Marx sono dunque un padre e un figlio nell’atto di uno conflitto generazionale macrostorico. La materia in esame a proposito di Locke pone la domanda: perché figlio d’Abramo? L’attivismo, il primato della dimensione pratica ed empirica, qualificante il pensiero lockiano ha un’ascendenza veterotestamentaria. Weber ha ricondotto l’origine del capitalismo moderno a una serie di meccanismi psicologici di ispirazione religiosa, a una forma patologica del comportamento umano ricercante il segno della salvazione da parte di Dio nel successo economico e sociale. Tale dinamica inconscia nel mondo protestante in primis calvinista è la nevrosi alla radice del capitalismo occidentale. Notiamo in Locke la prassi ancorata a un’idea di Dio metafisica: si tratta del meccanismo weberiano in embrione concettuale. L’attivismo capitalista ha però un padre più vecchio: il volontarismo, l’attivismo degli esuli atonisti che ambirono alla fondazione della Nazione ebraica antica. La ricerca del successo bellico, dell’affermazione di un gruppo a testimonianza della predilezione divina (del Dio principale) costituisce quel modello veicolato dal Cristianesimo nella cultura occidentale. Un Cristianesimo irrazionalista esploso con la Riforma luterana. La religione giudaica, sostiene Freud, ipostatizza nella figura del Dio numero uno una proiezione nevrotica maschilista dell’immagine paterna. Questo è il discutibile Dio di Locke, garante del sistema liberale, il quale si rivela alla fine un modello teocratico in incognito, copiato dai fisiocratici francesi alla ricerca di giustificazioni borghesi in economia. Puntualizzo in maniera inequivocabile che le mie parole cercano di indagare con obiettività, e che non hanno niente a che spartire con punti di vista antisemiti. Le dinamiche psicologiche messe in evidenza piuttosto che prestarmi a essere frainteso serviranno a far capire la genesi di luoghi comuni (simboli) antiebraici, i quali inquadrati in un impianto analitico anche junghiano indicano la loro sorgente in un archetipo dell’antisemitismo (il cui avvicinarsi alla coscienza è da rifiutare). Mai e in nessun posto può sussistere un diritto a uccidere esseri umani a causa di nevrotici pregiudizi discriminatori. Se vogliamo sul serio combattere la violenza e la discriminazione di irrazionalista nascita dobbiamo comprendere i fatti storici, e inoltre quelli psicologici, dal loro intimo. Certificare la verità e avverare il certo sono le mire di uno storico. L’irrazionalismo volontaristico tedesco, uscito fuori dal Luteranesimo, e molto tragicamente manifestatosi durante l’era di governo nazista, ha la sua provenienza dall’Ebraismo. Può sembrare un’assurdità, e io ne resto turbato, però è un dato evidente che la teoria del popolo eletto (da Dio) stia nel Tanak. L’irrazionale presunzione tedesca, resasi visibile in intellettuali di vaglia, ha bevuto l’acqua versata nel suo canale in principio da Lutero, il quale fu il promotore dell’assunzione della dottrina del popolo eletto da parte dei Tedeschi. Dall’Editto di Costantino la crisi spirituale della Civiltà occidentale si è acuita: una dialettica fra la razionalità grecoromana e l’irrazionalità giudaicocristiana ha caratterizzato la storia successiva dell’Occidente. Quando ha prevalso l’irrazionalismo, il Cristianesimo ha provocato mali: la caduta dell’Impero romano, la morte di milioni di persone, il trasferimento di alcuni difetti dell’Ebraismo al di fuori del suo contesto originario (misoginia, omofobia, teocrazia, attivismo irrazionale). Di per sé l’attivismo non è un male; e il modo in cui si sostanzia a rendere negativa una condotta. Il mondo medievale visse un’esperienza imprenditoriale avanzata con l’attività dei Templari, i quali diedero vita a un giro d’affari internazionale legato a una visione, per allora, di inusuale sincretismo religioso nel panorama monoteista. L’arricchimento dei ceti intraprendenti cominciò a prevalere su tutto il resto. I Templari fecero le spese della loro abilità davanti ai vecchi padroni, e furono distrutti rinascendo in Scozia dietro alta veste dentro all’origine templare della Massoneria. Qui ritorniamo da Locke e dal liberismo inglese. Scoprire il Giudaismo antico la radice dell’irrazionalità occidentale che si misura con la razionalità grecoromana, è una cosa da esaminare con la massima attenzione e la dovuta accortezza. Non si rileva nell’analisi storica e filosofica siffatta analogia di vedute rispetto a sbagliate e riprovevoli concezioni delle quali un exemplum può essere quella del nazista Rosenberg. Rispetto gli Ebrei, mi addoloro pensando alla Shoah e a tutte le loro persecuzioni. Indicare l’Ebraismo antico quale movente di irrazionalità significa evidenziare una categoria concettuale, un sistema di pensieri, non un gruppo di persone (etnia). Su questo versante cammina il ragionamento, proseguente sul lato psicologico nell’illustrare la genesi di due simboli negativi dell’altrettanto non positivo archetipo dell’antisemitismo. Antisemiti sono coloro che danno una risposta irrazionale a una domanda irrazionale. In tale risposta può darsi il trovare due topoi: l’Ebreo usuraio e la finanza ebraica, e l’Ebreo bolscevico dietro all’URSS. Detti simboli celano trame psicologiche di cui conosciamo l’albero genealogico. Locke è padre di Marx, e figlio d’Abramo; allora Abramo è nonno di Marx: il sillogismo dell’attivismo è chiuso. Non si sa quanto siano coscienti di esso i vari estremisti nevrotici antisemiti. Se conosciamo i telai e l’intelaiatura storici e psicologici, guadagniamo strumenti di guarigione. Non esistono cospiratori Ebrei, ma adesioni consce o inconsce a determinati modelli di comportamento. La questione è di profonda psicologia, non materia di fanatismi religiosi o politici. Se, ad esempio, la finanza angloamericana e quella ebraica si possono trovare allineate non c’entra la razza. In questi casi c’è una ciceroniana solidarietà di interessi: il dettaglio dell’accidentale può avere diversi nomi. Voglio fornire un ulteriore contributo volto a sfatare il mito negativo del mercante giudeo. Dopo la Diaspora gli Ebrei divennero abili imprenditori grazie a un semplice motivo: spostarono l’idea di elezione dal piano politico-militare a quello sociale, e gli accadde la stessa cosa dei protestanti calvinisti. In virtù di ciò, i protagonisti di comportamenti compulsivi capitalistici stanno nello stesso contenitore. A cavallo di ’800 e ’900 l’essere Inglese, Americano o Ebreo non ha rilevanza categoriale in relazione diretta al fenomeno capitalista. Hanno rilievo i meccanismi psicologici indotti dalle religioni di riferimento. Quelli contano nella lettura sociopsicologica. Nonostante tutto ciò è da ricordare che la maggioranza di Giudei, Americani e Inglesi fosse composta da gente semplice del novero degli sfruttati. Gli intraprendenti di migliore successo in confronto al loro si dimostrano soltanto un’oligarchia di attivisti compulsivi cronici, in fin dei conti senza patria (come si diceva dei bolscevichi). Locke non nutre simpatia nella sui generis tolerantia (includente il Giudaismo) nei confronti di cattolici e atei. Temeva i primi a causa di ragioni politiche (sono fautori di modelli totalitari e assolutistici: l’utopia di san Tommaso Moro, la monarchia assoluta); i secondi lo preoccupano per via di motivi meno contingenti. Stupirebbe in un elogio della tolleranza vedere estromessi pure gli atei. La spiegazione si trova nella difesa del garante ontologico del sistema liberale. Senza un Dio-nevrosi che predestina al successo, chi può giustificare la pretesa di salvezza? Locke ripudia quindi il figlio futuro parricida, al quale non resta per contrasto altro dal proclamarsi ateo, avverso a ogni forma religiosa convenzionale (esclusa la sua). Il liberalismo fideistico ha de facto teorizzato la borghesia quale popolo eletto, la sua superiorità rispetto alla razza dei poveri (maltusianismo, darwinismo sociale), accogliendo gli Ebrei. La tradizione tedesca ha edificato una sua teoria sociobiologica, nell’eleggere la Germania dal sangue puro al di sopra degli altri, escludendo i Giudei. Dalla fine dell’Ottocento a oggi (Brexit, UE germanocentrica) la storia europea è ruotata attorno a una competizione fra Inglesi (ideologia liberal-capitalistica) e Tedeschi (ideologia pangermanista). I primi, empiristi, nell’irrazionalità sono spiritualisti; i secondi, spiritualisti, nella loro irrazionalità sono empiristi (marxismo, razzismo biologico). Questi testé delineati sono meccanismi di compensazione psichica inconscia junghiani. Ovunque gli attivisti nevrotici hanno preso il potere politico, hanno considerato la legge e il potere legislativo secondo il criterio di utilità del più forte. Ciò non significa che istanze di genuina emancipazione non si associno a esperienze storiche. Questa realtà è un ibrido dove poter rintracciare tensioni opposte.


Per approfondimenti

domenica 18 settembre 2016

DISTOPIA ALL’ITALIANA

di DANILO CARUSO

“Monitor” è un film italiano del 2015, una distopia tutto sommato leggera. La rappresentazione imperniata sulla funzione sociale svolta dai centri di ascolto mi ha rammentato le mie riflessioni sull’orwelliano telescreen di “1984” (esposte nel mio saggio “Il Medioevo futuro di George Orwell”1). Il mondo distopico del film (abitato da impiegati, dipendenti d’imprese, società) offre l’opportunità a chiunque di uno pseudosostegno psicologico. Ognuno può esporre le sue preoccupazioni e/o vicissitudini in una stanzetta, dove si trova solo davanti a un monitor: una sorta di confessionale. Costui/costei vomita tutto quello che la sua anima non ha digerito a un operatore (uomo o donna) che l’ascolta da un altro posto. L’ascoltatore non conosce il nome del suo assistito (non può vederlo, e dispone solo di un codice d’identificazione); chi parla invece di là non sa niente del suo interlocutore, di cui legge messaggi scritti sullo schermo di fronte. Questo telescreen è un epigono di quello di “1984”. Nella mia ricordata monografia sul romanzo ho paragonato la sua azione di monitoraggio informativo al sacramento cattolico della confessione, il quale mira a carpire dati, notizie da utilizzare in prospettiva della manipolazione e della gestione di esseri che definire umani è forse iperbolico. In entrambi i casi, distopico filmico e reale, il/la mal capitato/a non trova facilmente un esperto di psicologia. Nel film gli operatori (non specialistici) debbono più che altro rassicurare il soggetto invitandolo a tirare a campare. Più o meno quello che capita durante la confessione religiosa: le malefatte di Don Rodrigo saranno punite dalla peste divina, e non da un’azione di giustizia umana (che non darebbe adito al problema della Provvidenza manzoniana); Don Abbondio ha paura di scontrarsi col regime dell’iniquità, con il quale alla fine finisce per identificarsi, non avendo la forza e il coraggio (ma solo il desiderio) di sostituirvisi. Il confessarsi in “Monitor” è prassi laica, insipida: pare fatta da un Don Abbondio di turno. Un omologato vaso di terracotta il cui lavoro aspira alla conservazione del sistema. Al protagonista del film, Paolo, un operatore di suddetti centri d’assistenza, capita di interessarsi del caso di una giovane donna sposata oltre il consentito, spingendosi a conoscerla fuori del suo contesto di lavoro. Nasce una storia d’amore agevolata dal fatto che lei, Elisa, sia insoddisfatta del marito. Lui sul finale viene scoperto, e tutte le vicende si sviluppano in modo che si perderanno di vista e non si incontreranno più, giacché ella ha recuperato il rapporto matrimoniale. I due protagonisti si riallacciano in stile soft agli orwelliani Winston e Giulia (Julia). L’esito di “Monitor” ha un riflesso puškiniano: ricorda l’“Onegin”. Gli ambienti lavorativi di Paolo, chiusi alla luce del sole, sanno inoltre di Ministero dell’amore di “1984”. Il film ci presenta un universo umano dove soltanto un principio d’inerzia mantiene in vita la gente: ci sono fantasmi di umanità che non è raro ammirare nelle necropoli del vivere comune. Freud sosteneva che la coazione a ripetere è un richiamo di reificazione, un’eco di morte: chi vive nella ripetitività di riti biologici e nevrotici, è quel fantasma, quel morto; un oggetto che un’inerzia di sistema quasi totalitario illude di vita umana. Una maschera, una imago, in un gioco degli specchi fra grottesche presenze, inconsapevoli di ciò (vedere la bestiale deformità richiede l’uscita dalla caverna). Tant’è che la riflessiva Elisa dice a Paolo: «Le persone si presentano sempre meglio di quello che sono, mai il contrario». Sotto l’habitus, di un sepolcro imbiancato, c’è spesso una mummia poco faraonica. Su una parete del palazzo in cui abita Paolo, una vetrata a pianterreno che dà sull’esterno, domina una foto di Edison recante una sua massima: «Il tempo è l’unico vero capitale che un essere umano ha, e l’unico che non può permettersi di perdere». L’intraprendente inventore americano rievoca Taylor e Ford delle distopie di Zamjatin e Huxley (“Noi” e “Brave New World”, due romanzi cui ho dedicato altri due saggi2). Il cosmo distopico di “Monitor” proclama la sua etica del successo che capitalizza l’estensione temporale prosciugando l’essenza intensiva umana. L’uomo ridotto a essere-nel-tempo assurge ad aspirante impiegato che desidera svuotarsi, reificarsi, diventare un tubo vuoto attraverso cui passa il soffio dell’illusione beatificante. Da questa anonima confortevole aurea mediocritas Paolo ed Elisa riescono a trovare un temporaneo rifugio.


1 http://www.scribd.com/doc/258151081/Il-Medioevo-futuro-di-George-Orwell
http://www.scribd.com/doc/273391341/Il-capitalismo-impazzito-di-Aldous-Huxley




Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

venerdì 16 settembre 2016

LA LANCIA DI ATENA

di DANILO CARUSO

Reputo che Hegel sia stato prima che filosofo un raffinatissimo psicologo e sociologo. Nelle sue riflessioni ha raccolto molte dinamiche dell’azione umana, le quali montate assieme offrono la Verità cui mirava il suo sistema idealistico. Non si tratta di contenuti fissati né tanto meno di figure (hegeliane) stabilite definitivamente. La storia va avanti, e nel pensiero di ogni epoca c’è una sorta di psicoterapia accanto alla ricerca scientifica, la quale dà risposta alle esigenze spirituali del momento. In questo senso la conoscenza della Verità è un sapere di tipo storico, poiché avviene tramite una conoscenza che si prolunga nel tempo. Ma dietro questo palcoscenico della temporalità si celano dinamiche soggettive e intersoggettive (psicologiche e sociologiche) che ci conducono alla volta di un piano d’analisi astrattivo dove il mero fluire del giorno si scioglie a guisa di neve al sole. Il mondo della psiche, dell’inconscio (individuale e collettivo) apre le porte a una magmatica verità atemporale di raccolta e di elaborazione immensa di dati di coscienza. È lo junghiano inconscio collettivo, dove abitano gli archetipi, i quali sono risultati di quest’attività di sottofondo psichico, i prodotti di mediazione tra tensioni. Essi affiorano alla coscienza come simboli miranti all’addomesticamento e alla stabilizzazione di agitati e irrequieti contenuti sedimentati dietro all’archetipo che funge per noi da mediatore formale, e a cui la fantasia appiccica una facciata di sicurezza (il simbolo appunto). L’archetipo appare prodotto sintetico alla maniera hegeliana (risultato di una dialettica di contrapposizione): è un razionale positivo il simbolo nel suo ruolo di guida verso l’equilibrio. L’elemento simbolico in mano alla coscienza diventa medium negativo nel tentativo di calarci nel retrostante all’archetipo, e di aggiustare ciò che non va nella vita quotidiana. Le figure della “Fenomenologia dello Spirito” sono archetipi junghiani, sono modelli astratti di un’area altrove simbolica indicante analoghi comportamenti umani: nuove epoche possono presentare archetipi, simboli, figure nuove nel progresso di crescita dell’umanità. Uno schema di psicologia evolutiva molto profondo è quello vichiano, il quale distingue (partendo dalla singola natura dell’uomo) tre stadi di un meccanismo storico progressivo, e ciclico nel suo impianto generale che si ripete lungo una scala in salita e in direzione di una maturità più elevata. Vico chiama le tre fasi età 1) degli dei, 2) degli eroi, 3) degli uomini. A ognuna corrisponde una qualità precipua dell’evoluzione individuale (nella concezione vichiana la società e la storia sono dimensioni di un corpus unico che cresce, allo stesso modo di Hegel): 1) la fantasia, 2) il coraggio, 3) la razionalità. Il presentarsi di archetipi junghiani si manifesta subito nella persona e nell’intero genere umano giacché la fantasia è la prima attività. A questa corrisponde uno stadio di ingenuità; di astrattezza tetica, se vogliamo dirla con Hegel: è la condizione di natura rousseauiana, è lo status dell’anima bella romantica. Detti ultimi due casi sono riproposizioni teoriche in un grado del prospetto vichiano che si è già ripetuto. All’astrattezza segue un fuori-di-sé, un prendere contatto, dominio della realtà esteriore in funzione di specchio che restituisca l’immagine dell’uomo: il coraggio di intervenire nel mondo gli riflette il suo ruolo (dialettica hegeliana signore-servo). Allorché il coraggio resta fermo all’esterno davanti al razionale e assorbe i contenuti della sfera religiosa (di per sé di tendenza pacifica) dell’età degli dei sorgono fenomeni religiosi nocivi: nascita di religioni illiberali e persecuzioni. L’attivismo protestante alla base del capitalismo (Weber) fornisce un ulteriore esempio di simile insania, al pari del terrorismo di richiamo religioso. Questi ultimi sono naturalmente collocati in fasi triadiche vichiane avanzate (puntualizzo che non dobbiamo pensarle attribuite in maniera netta e omogenea nelle varie vicende umane, similmente alle figure hegeliane e agli archetipi junghiani). La religione traslatasi nell’età degli eroi rappresenta un passaggio hegeliano negativo razionale. Nella terna dello Spirito Assoluto (coscienza in sé e per sé, ossia piena e completa) la religiosità ha il compito di medium negativo, la religione armoniosa dell’età degli dei era l’arte (specchio del continuum uomo-natura, di un’astrattezza tetica che si perderà a mano a mano che gli esseri umani aggrediranno e controlleranno la natura, con gran rimpianto di Rousseau). L’arte è un luogo simbolico-archetipico junghiano: se l’età degli eroi non guadagna quella degli uomini, il blocco di fronte all’ingresso del razionale genera disturbi psichici (i più vari: da quelli meno evidenti a un occhio comune, a quelli purtroppo noti). Una manifestazione sociale positiva dell’era antica è stata l’Olimpiade: evento sportivo e religioso (non il solo) in grado di fermare una guerra. Fondeva bene l’età degli dei (arte, religione, fantasia) ed età degli eroi (valore, intraprendenza, senso dell’onore), e una bella fetta di razionalità (età degli uomini), dato che aveva la capacità di far sospendere un conflitto in nome di qualcosa di ideale superiore all’ombra junghiana. Oggi rischia di succedere il contrario. Hegel dice che la religione è un fuori-di-sé, che è un quid intersoggettivo, liturgia sociale: ciò era l’Olimpiade antica. Una religiosità che perde tale ethos e si trasforma in nevrosi, impantanandosi davanti al sagrato della razionalità, senza entrare nel razionale positivo hegeliano e nell’età degli uomini vichiana, contempla un io in balia di pericolosissimi complessi. Le religioni vengono costruite di miti, i quali ripropongono simboli rievocanti archetipi. Laddove ci sono modelli comportamentali giudicabili illeciti c’è una religiosità malata: pensiamo alla caccia e all’uccisione delle streghe. Le religioni sono favole per adulti. Come le fiabe, relegate però all’età infantile, rispondono col loro linguaggio simbolico a bisogni della psiche individuale o del corpus sociale. Cosicché, ad esempio, nei contesti in cui prevale letale misoginia è lecito – in senso relativo contingente – al nevrotico adottare tutta quella impalcatura concettuale autorizzante e legittimante il disprezzo. Una lucreziana religio è disturbo mentale. Certe forme (pseudo)religiose sono rappresentazioni di disagio interiore. L’essere umano, la società che si elevano all’età degli uomini, al terzo gradino dello Spirito Assoluto (la filosofia) hanno la possibilità di osservare il mondo dall’alto (in basso). Tutto ciò non equivale ad abolire la religione in senso marxista. Marx faceva notare cose in gran parte sensate. Le religioni sono le filosofie degli ignoranti: di chi su larga scala, purtroppo, è stato costretto a rimanere nell’ignoranza, e di a chi piace questo huxleyano soma (rassicurante sin quando il negativo della dialettica hegeliana in generale non si presenterà sotto il suo naso). In relazione a elaborati come le favole Jung distingue uno spirito del tempo e uno spirito del profondo. Quest’ultimo fornisce il senso di una fiaba elaborato nel sostrato inconscio collettivo: l’allegoria autentica di cui lo spirito del tempo vede quanto gli occorre e quanto la sua abilità di lettura gli consente. Riguardo allo spirito del tempo gli uomini differiscono: ognuno vive secondo le sue abilità, e la più diffusa connota l’epoca. La nostra era è quella di nevrotici di acculturazione scadente: la perfetta irrazionalità sottratta di quel che basta al principio di realtà (vale a dire alla conservazione di una società bestiale nella sostanza e ipocrita nell’apparenza di ordine controllato). Uno spirito del tempo legato a dei soggetti da educare meglio, da curare, va a pescare simboli negativi, comportamenti distruttivi, in qualsiasi stagione. Lo scontro violento cui assistiamo oggi vede contendenti due modelli di irrazionalità: quella capitalistica occidentale e quella antipauperistica filoterzomondista. Solo la ragione può salvare il mondo. La ratio non può essere offesa dal suo interno: viene attaccata, limitata, isolata da fuori. Una qualsivoglia condotta nevrotica, anche la meno percettibile, è il frutto di una privazione di razionalità. Proviene dall’investire libido male nell’età degli eroi, nel fuori-di-sé dove si intreccia l’intersoggettività mitico-liturgica. In un telaio di fili nevrotici in modo molto difficile si possono tessere fili buoni. Ci vuole l’intervento di una vis sana a supporto della ratio. Pensiamo al mito della biga alata del “Fedro” platonico: la componente razionale umana (auriga) ha bisogno del cavallo bianco (componente emotiva) allo scopo di dominare il cavallo nero (la parte passionale, torbida, l’ombra junghiana). La vichiana età degli uomini prospetta il punto di sanità nella vita dell’uomo e dell’umanità: è costituito dal vertice della filosofia nell’hegeliano Spirito Assoluto, dall’archetipo dell’individuazione nella psicologia junghiana. La libido (materia) si coniuga con la ragione (forma) in un sapere liberatorio e in un libero agire creativo: essere e non avere, per dirla con Fromm. Si comprende che alcuni esseri umani, disponendo della forza opportuna, possono migliorare la realtà. Basta mettere ognuno al proprio posto come nella repubblica platonica, dove la milizia a tutela dell’ordine e del benessere è il braccio al servizio di un’aristocrazia intellettuale.



Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

giovedì 8 settembre 2016

UNA DISTOPIA REICHIANA

di DANILO CARUSO

“The lobster” è un film del genere distopico uscito nel 2015, e non trae le sue vicende da uno specifico racconto letterario preesistente. Si tratta infatti di un’originale creazione del regista e di un suo collaboratore. Nonostante ciò si rivela chiaro, nell’ideazione della trama, l’omaggio a due grandi scrittori: Evgenij Zamjatin e George Orwell. La società distopica rappresentata in “The lobster [lett.: l’aragosta]” ha maturato un radicale orizzonte reichiano. Wilhelm Reich è stato uno studioso di psicoanalisi, il quale ha elaborato e proposto un modello di approccio alla psiche umana a metà strada tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Reich ha ipotizzato un’energia cosmica (paragonabile nell’aspetto formale all’inconscio collettivo junghiano), limitandone però la connotazione a una libido freudiana (cioè di esclusivo carattere sessuale): l’“orgone” reichiano opera nello spazio psichico umano, e l’astinenza dalla soddisfazione sessuale è causa quantomeno di disturbi mentali. Idee improntate a riflessioni simili, ma in salsa freudiana, si trovano nel pensiero di Herbert Marcuse che parlò in due distinti momenti successivi di “repressione addizionale della libido” e di “di desublimazione in funzione repressiva” (sempre della libido) in favore del mantenimento del sistema politico dominante. Questi concetti marcusiani ritornano all’interno di due miei saggi critici1 sopra i romanzi “Noi” e “1984”, rispettivamente di Zamjatin e Orwell. Gli spunti da tali due lavori narrativi animano le due dimensioni sociali del mondo di “The lobster”: la città e la foresta (la dicotomia è di ascendenza zamjatiniana). Gli abitanti della città vivono in un clima reichiano che non tollera la presenza di singles. Tant’è che chi resta da solo ha, portato in un albergo, un mese e mezzo per trovare un/una partner tra gli altri ospiti. Trascorso infruttuosamente il tempo concesso alla ricerca di una sincera costituzione di coppia (fondata sulle affinità) il/la single viene trasformato/a in un animale di sua scelta. Evidente il sovvertimento di un regime più equilibrato, dove l’animalità è un eccesso reichiano, che qui invece è regola e riserva una paradossale punizione, la quale fa apparire persino lo Stato unico zamjatiniano più illuminato (dove la sessualità è liberalizzata, sulla falsariga marxista, e non materia d’obbligo periodico in prospettiva della tutela personale della salute secondo quanto insegnato da Reich). Al protagonista del film, David (che aveva scelto il possibile destino di aragosta), non va in porto il machiavellico progetto di costituire una coppia con una donna insensibile e violenta: da lei scoperto, egli se ne sbarazza con l’aiuto di una cameriera infiltrata dei singles, i quali vivono rifugiati nella foresta. A costoro viene data la caccia dagli omologhi cittadini ospitati nell’albergo, che possono beneficiare di giorni supplementari di soggiorno coatto grazie a eventuali catture. David scappa proprio nella foresta (diviene un perseguitato), e trova un mondo simmetrico. Ai solitari è proibita qualsiasi attività erotica interrelata. In confronto a ciò l’agostiniano matrimonio di “1984” è meno repressivo: la sessuofobia oceaniana nel gruppo dei singles viene elevata a un livello distopico elevatissimo (sono previste cruente punizione a carico dei trasgressori). Di ulteriore reminiscenza orwelliana era stata la stanza 101 dell’albergo dove alloggiava David. Costui instaura una relazione clandestina con una donna miope come lui (il quale porta gli occhiali). Tale legame rievoca quello di Winston e Giulia (Julia) nell’intollerante Oceania. In entrambi i casi il finale è distopico. La leader dei singles li scopre, e fa accecare lei. David per giustizia si adopera affinché ella sia catturata dai reichiani della città, luogo in cui fugge assieme alla sua compagna. Qua si acceca pure lui allo scopo di creare quel meccanismo di affinità previsto nei sistemi di coppia. La conclusione concettuale, sul piano psicologico, è che il principio di realtà si è spinto oltre il lecito, sino a esplodere in due assurdi modelli. Due antinomie della nevrosi, che non consente facilmente il guadagno di un’aristotelica medietà. Perciò i protagonisti rimangono schiacciati da un mondo immaginario che ha smarrito il buon senso a vantaggio di deliranti impostazioni della società e a scapito della sanità mentale. Questa, in contesti ritenuti normali, non può tuttavia essere rilevata in forme di esistenza più animali che umane: l’uomo elettroaddomesticato, asciutto di umanesimo, analfabeta funzionale, è equivalente allo schiavo nella concezione di Aristotele il quale vede l’umanità nell’anima razionale, non in quelle vegetativa e sensitiva. Mangiare, muoversi non fanno un essere “umano”: la visione minimalista restituisce una fattoria dove «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri».


1 Due estratti da queste mie monografie (“L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin”, “Il Medioevo futuro di George Orwell”):
http://danilocaruso.blogspot.it/2016/06/la-sessualita-repressa-in-1984.html




Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

LA NUOVA SPARTA

di DANILO CARUSO

Il mondo attuale sta vivendo la crisi finale di una vichiana “età degli uomini”. La razionalità che connota simile fase storica nel pensiero di Vico è nel nostro tempo ormai in uno stadio involutivo che ha lasciato margine a una malsana “età degli dei”. L’irrazionalità supporta comportamenti violenti sotto pretesti pseudoreligiosi. Non c’è armonia tra gli esseri umani e dentro di loro. La fantasia che dipinge i simboli degli archetipi junghiani è stata sopravanzata da un’azione di morte. La comprensione di questo negativo agire ci fa comprendere una patologia mentale della civiltà umana d’oggi. Agisce male chi si sacrifica in un atto omicida o combatte – pensando di essere un eroe – a danno di chiunque; sbaglia, e pertanto è ingiustificabile sul piano pratico. Le cause che ne condizionano il comportamento non rientrano però tutte nel suo campo di controllo: disagio e ingiustizia sociale, anche se egli non ne è toccato, possono spingere l’asse di equilibrio della ragione umana alla deriva, e lasciare quei sentimenti di aspirazione alla giustizia in preda a modelli comportamentali conducenti alla volta di disastrose conseguenze. La forza e la ragione sono due dei tre tratti distintivi dell’essenza umana: la garanzia dell’ordine e della sicurezza, il mantenimento del benessere, la conservazione della civiltà e del diritto, la difesa della creatività (altra, terza, grande componente) in positivi prodotti, non possono fare a meno di questi due fattori. Bisogna tenerli uniti. Una vis svincolata da una lucida ratio è deleteria nei confronti del consorzio sociale. Uno spazio di liceità nel passato è stato il duello d’onore. “Onore” è quello che manca oggi, ossia la coscienza di sé come essere superiore alle bestie. L’eccellenza umana, in qualunque settore, è onorevole, è motivo di nobiltà. La mancanza di riguardo verso gli eccellenti crea attrito, contrasto tra due ordini dell’esistenza: uno è superiore per la sua natura, l’altro prossimo alla condizione animale si è degradato. Tutto ciò configura una ripresentazione della hegeliana dialettica servo-padrone davanti al nostro cammino. La maturazione della vichiana “età degli eroi” lascia presumere il recupero di questa in funzione catartica: una nuova mentalità operativa spartana può sorgere nell’avvenire. Un’individualità umana cosciente di sé esige il riconoscimento di tale sua dignità da un simile che come lui riferisca le sue percezioni a un io. In questo reciproco confronto, l’io si riflette e si ritrova nell’altro per quanto concerne una comune capacità di tale operazione. Il suo obiettivo è di cancellare questa proiezione vicendevole nell’altro, frutto però dell’azione più efficiente di uno solo il quale tuttavia spezza la reciproca relazione iniziale. L’indipendenza iniziale dei due soggetti connota la dinamica che mira a far riconoscere una parte nel suo essere cosciente a svantaggio dell’altra che in partenza ha status di soggetto e non di oggetto. L’interrelazione iniziale è uno specchiarsi vicendevole e statico, animato da reciproca imitazione (ma ognuno partiva col fare quello che avrebbe voluto vedere nell’altro: c’è un primo riconoscimento inter se contemporaneo di soggetti che stanno di fronte). Questa situazione è però destinata a modificarsi perché nel duello tra i due io solo uno può ottenere la meta in palio dell’altrui pieno riconoscimento. Ciascun soggetto polarizza il suo sé con un segno positivo, e tutto il resto assume connotazione negativa (in pratica oggetto). Oggetto dunque sono l’un per l’altro i due soggetti che non vedono nell’altro un io munito di coscienza di sé. La qual cosa richiederebbe un salto di qualità nella capacità di comprendere la propria azione e quella dell’altro in una forma di elevazione astrattiva. Il che vuol dire nelle parole di Hegel «dimostrare di non tenere alla vita». Ma ciò non equivale ad affermare una vocazione scadente nell’autolesionismo: «ciascuno tende dunque alla morte dell’altro». «Il fare dell’altro comporta la messa a rischio della propria vita. Il rapporto tra le due autocoscienze, dunque, si determina come un dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte. La necessità di questa lotta risiede nel fatto che ciascuna autocoscienza deve elevare a verità, nell’altra e in se stessa, la propria certezza di essere per sé. Ed è soltanto rischiando la vita che si metta alla prova la libertà… L’individuo che non ha messo a rischio la propria vita potrà pure essere riconosciuto come persona, ma non avrà raggiunto la verità di questo riconoscimento, non verrà cioè riconosciuto come un’autocoscienza autonoma. Parallelamente, quando mette a rischio la propria vita, ogni individuo deve tendere alla morte dell’altro proprio perché ritiene di non valere meno dell’altro». Questo atteggiamento descritto, seguito alla danza di diffidenza nell’esordio, è spontaneo: sui contendenti grava un pericolo di morte ignorato. La diffidenza quindi perdura, e i due poli della contesa restano l’un per l’altro oggetto, non soggetto. La loro ignoranza (rimozione formale) del rischio è definita da Hegel «negazione astratta» della morte. Quando uno dei due contendenti si scopre in qualità di vivente e non soltanto di «autocoscienza pura» ha rotto l’equilibrio: a lui spetterà il rango di «servo», il «signore» sarà l’altro. La coscienza di quest’ultimo fa un salto di qualità: egli è cosciente di sé come concetto, e cosciente di una fallita autocoscienza (oggetto) nell’altro (il che gli restituisce un ambito di consapevolezza pieno). Il servo è rimasto un oggetto. «Il signore, invece, avendo dimostrato nella lotta di considerare l’essere autonomo soltanto come un negativo, è la potenza che domina su questo essere. Ora, poiché il signore domina su questo essere, e questo essere è sua volta la potenza che domina sull’altro, cioè sul servo, ecco allora che la conclusione di questo sillogismo è: il signore domina su questo altro». Il servo diviene strumento di trasformazione delle cose, opera di cui il signore coglie il «godimento». Alcune parole di Carl Gustav Jung a questo punto risultano molto illuminanti e pertinenti. «Il desiderio appassionato, cioè la libido, ha i suoi due aspetti: esso è la forza che tutto abbellisce e che anche, in certe circostanze, tutto distrugge. Sembra che spesso non si riesca a ben comprendere in che cosa consista la caratteristica distruttiva della forza creatrice… Basta pensare alla situazione dell’educazione borghese per comprendere quale senso di estrema insicurezza assale chi si abbandona senza riserve al destino. Essere fecondi significa autodistruggersi, perché con la nascita della generazione successiva quella precedente ha oltrepassato il suo culmine; così i nostri discendenti diventano i nostri più pericolosi nemici, con i quali non riusciamo a spuntarla, poiché essi ci sopravvivranno e perciò ci toglieranno inevitabilmente la forza dalle mani indebolite. L’angoscia davanti al destino erotico è del tutto comprensibile, poiché esso è qualcosa di imprevedibile; in generale, il destino nasconde pericoli ignoti, e la continua esitazione del nevrotico a mettere a repentaglio la vita si spiega facilmente con il desiderio di poter rimanere in disparte per non dover essere coinvolto nella pericolosa lotta della vita. Chi rinuncia al rischio di vivere deve però soffocare in sé il desiderio, commettere una specie di suicidio. Con questo si spiegano le fantasie di morte che spesso accompagnano la rinuncia al desiderio erotico». Il servo è “morto” in rapporto alla dignità umana. La libido junghiana che abbraccia tutti i settori del comportamento umano, in lui è solo quella dell’animale. Per lui non c’è spazio nelle prime due categorie sociali della repubblica platonica. L’attività lavorativa, secondo Hegel offre all’essere umano la possibilità di guadagnare attraverso il suo intervento formativo sull’oggetto la stessa elezione del padrone. Allo stadio attuale di crescita dell’umanità gli uomini sono servi nel corpo e nella mente. Il regime capitalista lo asservisce sotto un profilo, usando una similitudine non tanto lontana, di sfruttamento della prostituzione: affitta corpi di cui sfruttare la libido investita nel campo della produzione industriale. La dimensione della religio, d’altro canto, esercita un potere di deterrenza sull’autonomia della volontà per mezzo di spettri che impediscono alla libido un libero armonioso sviluppo. L’unica «attività formatrice» che in tali prigioni può liberare la coscienza asservita è quella intellettuale, giacché il capitalismo ha neutralizzato il vecchio hegeliano potere formativo del lavoro e le religioni imbrigliano ad hoc disagi e desideri. Dice Hegel che «se la coscienza non ha sofferto la paura assoluta, ma solo qualche angoscia particolare, allora l’essenza negativa le è rimasta solo esteriore e non ha pervaso intimamente la sua sostanza. Se non viene fatto vacillare ogni elemento che riempie la coscienza naturale, allora questa coscienza appartiene ancora, in sé, all’essere determinato, e il senso proprio è ostinazione, cioè libertà ancora irretita nella servitù. Nel caso dell’ostinazione, la forma pura non può divenire essenza, né tanto meno, considerata come espansione che oltrepassa la singolarità, può essere formazione universale, Concetto assoluto; nell’ostinazione, la forma è al massimo un’abilità particolare su qualcosa di singolare, ma non sulla potenza universale e sull’intera essenza oggettiva». In parole povere se l’uomo non si apre all’universo, non prende coscienza di sé; resta un oggetto, un pezzo della scacchiera sopra la quale si gioca il suo destino.


NOTE

I brani di Hegel sono tratti da un’edizione della “Fenomenologia dello Spirito” edita da Rusconi Libri nel 1995; il brano di Jung è preso da “La libido, simboli e trasformazioni”, testo pubblicato da Newton nel 1993.

Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica dell'irrazionalismo occidentale”