di DANILO CARUSO
“La macchina del tempo” è un
romanzo del 1895 di Herbert George Wells (1866-1946), un incrocio tra la
fantascienza e l’utopia negativa. Il protagonista del racconto (il viaggiatore del tempo, voce narrante
unica per largo tratto), grazie a una sua invenzione (la quale dà il titolo
alla storia), riesce a raggiungere il futuro: l’anno 802701, dove vive un’inaspettata
traumatica esperienza. I primi esseri post-umani con cui viene a contatto, gli
Eloi, sono alti quanto bimbi, vestono in modo uguale e sono vegetariani (la
fauna è pressoché assente). Ignorano la scrittura, e la loro lingua, nuova e
sconosciuta al time traveller (che
egli imparerà a conoscere), è ulteriore motivo di turbamento. Il primo approccio
avviene mediante comunicazione elementare e gesticolare. «Una domanda mi venne improvvisa
alla mente; queste creature erano dunque deficienti? […] Un suo rappresentante
mi rivolgeva una domanda degna del livello intellettuale di un bambino di
cinque anni. […] Feci subito un’altra scoperta piuttosto strana sul conto dei
miei piccoli ospiti: mancavano di interesse per qualsiasi cosa. Si avvicinavano
a me lanciando grida di impaziente meraviglia come avrebbero fatto dei bambini,
ma appunto come i bambini smettevano ben presto di esaminarmi e si
allontanavano alla ricerca di un nuovo giocattolo. […] Avevo l’impressione di
esser capitato in mezzo a un’umanità in declino». Wells, il quale aveva
simpatie politiche collocate a sinistra, nei primi capitoli del romanzo fa un
paio di isolati accenni al socialismo. Il viaggiatore nel tempo si interroga se
tutto quello che ha visto all’inizio non sia l’esito, alquanto sconcertante,
della dialettica sociale, ormai morta. «Non avevo mai visto individui più indolenti o che si
stancassero con maggiore facilità. […] Quel luminoso tramonto mi faceva pensare
al tramonto del genere umano. Per la prima volta ero in grado di comprendere le
strane conseguenze di tutti gli sforzi che stiamo compiendo nel campo sociale;
conseguenze abbastanza logiche, se ci pensiamo bene: la forza deriva dalla
necessità, e la sicurezza rappresenta un cardine della debolezza». Il
capitalismo era scomparso, a prima vista, in quel «paradiso sociale» scevro di
problemi di crescita demografica incontrollata: «A quanto potei giudicare, non
dovevano sottoporsi alla minima fatica». In simile futuro, lontano parente della nostra epoca, l’intelligenza si è ridotta ai
minimi termini, assieme a ogni manifestazione distintiva del genere umano (a
partire dall’arte). È morta la dialettica hegeliana signore-servo: «Quali sono
le cause […] che spronano l’intelligenza e il vigore dell’uomo? Le avversità e
la libertà: sotto la loro spinta l’uomo attivo, forte e astuto sopravvive,
mentre quello più debole soccombe; per esse l’unione leale di individui capaci
riceve il suo premio, meritato a costo di repressioni, di pazienza e di
fermezza». In questo «bizzarro mondo nuovo» apparirebbe un’eco, ancora utopica,
della marxiana abolizione della famiglia (con radice, positiva, nella “Repubblica”
platonica): «L’istituzione
della famiglia e i sentimenti che ne derivano: violenta gelosia, tenerezza per
i figli, devozione incondizionata verso i genitori, tutto ciò è giustificato
dai pericoli a cui va incontro la gioventù». Al time traveller la vita del
futuro remoto si mostra antitetica rispetto a una tensione spartana: «Pensavo
alla debolezza fisica di quegli esseri, alla loro limitatissima intelligenza,
alle numerose, enormi rovine che avevo davanti agli occhi, e sentivo rafforzarsi
sempre più in me la fede in una perfetta conquista della natura da parte degli
uomini: a ogni lotta succede la quiete. L’umanità era stata forte, piena di
energia, intelligente, ed aveva adoperato la sua abbondante vitalità per
alterare le condizioni in cui viveva; adesso era sopravvenuta la reazione,
provocata appunto dalle alterate condizioni di vita. In questo nuovo stato di
perfetto benessere e di sicurezza, l’infaticabile energia che è la nostra forza
non può non mutarsi in debolezza. […] A un tal genere di vita, quelli che noi
chiameremmo i deboli sono adatti come i forti, e di conseguenza non sarebbe più
possibile parlar di deboli; anzi, questi ultimi si troverebbero assai più a
loro agio, perché i forti sarebbero logorati da un’energia che non troverebbe
sfogo. Senza dubbio, la squisita bellezza degli edifici che vedevo era il
risultato degli ultimi sprazzi di energia sviluppata dal genere umano prima che
esso si indebolisse, in perfetta connessione con le sue attuali condizioni di
vita: dopo quel trionfo aveva avuto inizio la grande pace definitiva. Ed è
sempre stato questo il destino della forza in un clima di sicurezza completa:
essa si abbandona all’estetismo sia nelle arti che nell’amore, poi si
illanguidisce e decade». Questo scenario sembra una parodia rousseauiano-fichtiana
dell’ottimo stato di Natura. Wells, che era un progressista e un femminista,
mette in scena in tale primo ritratto una cruda, realistica, tragico-grottesca
caricatura di parte dell’umanità contemporanea e passata. La quale è proiettata
nel romanzo in un’era distopica. Gli Eloi sono paragonati dall’autore di “The
time machine” ai fanciulli: l’accostamento è ingiusto nei confronti di questi
ultimi. I bimbi sono bassi perché non sono cresciuti del tutto, e non sono
stupidi. Ci possono diventare a contatto con ambienti e adulti non sviluppati
secondo quanto l’altezza del genere
umano si aspetterebbe. Quando ciò che Dio ha immesso nella natura dell’uomo si
atrofizza, nella maniera su descritta, non sono qualificabili rimbambiti quelli
che abbiamo di fronte: i bambini sono filosofi naturali; gli adulti idioti,
abbrutiti, sono più vicini ad animali domestici. Il potere del logos in loro
diminuisce a livello allarmante. Il viaggiatore del tempo infatti constata un
fenomeno, non raro già prima, di impoverimento semantico-concettuale (pensiamo
d’altro canto al newspeak di “1984”): «Il linguaggio di quella gente
era davvero di un’estrema semplicità, composto soltanto di nomi concreti e di
verbi: se esistevano termini astratti, dovevano essere pochissimi; e inoltre i
miei ospiti ignoravano affatto il linguaggio figurato». In un secondo momento
il time traveller scopre l’esistenza dei Morlock, un altro genere di futuri
tipi post-umani. «La razza umana non era rimasta di un’unica specie, ma si era
sviluppata sotto due forme ben distinte fra loro: quei graziosi fanciulli del
mondo superiore non erano gli unici discendenti della nostra stirpe; anche
quella bianca, repellente Cosa notturna fuggita davanti a me era l’erede dell’evoluzione
dei tempi. […] La seconda specie umana conduceva una vita sotterranea; tre
circostanze in particolare mi spingevano a credere che le sue rare apparizioni
alla superficie della terra fossero la conseguenza di una ormai lunga abitudine
alla vita sotterranea […]. Sotto i miei piedi la terra doveva essere percorsa
da enormi gallerie: l’abitazione, appunto, della nuova razza. La presenza dei
pozzi e dei piloni di ventilazione lungo i fianchi delle colline – e ne
sorgevano da per tutto […] – dimostrava che le ramificazioni delle gallerie si
stendevano in tutti i sensi. Era assai logico, quindi, pensare che tutto quanto
occorreva alla facile vita degli esseri che vivevano alla luce del sole fosse
preparato in quel mondo inferiore e artificiale. Questa idea mi pareva talmente
plausibile, che la accettai senza pensarci due volte, e cercai di spiegarmi in
maniera verosimile la scissione della razza umana. […] Basandomi sui problemi
propri alla nostra epoca, sulle prime mi parve chiaro come la luce del sole che
l’estendersi dell’attuale divergenza di opinioni tra capitalisti e lavoratori,
divergenze di carattere puramente temporaneo e sociale, era la chiave di tutta
la faccenda. […] Possiamo notare anche oggi una tendenza a utilizzare lo spazio
sotterraneo per gli scopi meno ornamentali della civilizzazione. […] Le
tendenze aristocratiche della gente ricca – dovute senza dubbio alla sua
educazione sempre più raffinata – e l’incolmabile abisso che la divide dalla
rude violenza del povero, stanno già conducendo all’esclusione di quest’ultimo
dalla superficie della terra. […] In tal modo, alla fine, avremo al di sopra
della terra i ricchi, che condurranno una vita piacevole, comoda e bella, e
sotto la superficie terrestre i poveri, i lavoratori, la cui esistenza sarà un
continuo adattamento alle condizioni del loro lavoro. Una volta confinata nel
sottosuolo, questa parte di umanità sarà obbligata a pagare, e non poco, la
ventilazione delle sue caverne; se si rifiuterà, di farlo dovrà morire di fame
o di asfissia. Quindi una parte di costoro
si adatterà a un’esistenza miserabile, e i ribelli troveranno la morte, fino al
giorno in cui i sopravvissuti non si adatteranno perfettamente a una condizione
di vita sotterranea e non saranno felici del proprio stato [caverna
platonica, laboetiana servitù volontaria1; n.d.r.], così come gli
abitanti del mondo superiore saranno felici del loro. Ecco la ragione per cui
mi convinsi che la raffinata bellezza degli uni e il triste pallore degli altri
fossero una conseguenza naturale di quanto ho detto prima. Allora guardai con
altri occhi il grande trionfo dell’umanità, di cui avevo tanto fantasticato:
quel trionfo di educazione morale e di generale cooperazione che avevo
immaginato non esisteva affatto. Vedevo invece una vera e propria aristocrazia,
padrona di una scienza perfezionata al massimo grado, condurre alla sua logica
conclusione il sistema industriale odierno: il trionfo di questo sistema non
era stato soltanto un trionfo sulla natura, ma anche sull’individuo-uomo». L’impressione
iniziale, più o meno positiva, del viaggiatore nel tempo, a mano a mano che
approfondisce la conoscenza della realtà trovata, lascia il campo a toni
decisamente negativi a causa dei Morlock (post-proletari, «disgustose creature
sotterranee, … nuovissimi animali che avevano preso il posto degli antichi»), i
quali scoprirà essere dei cannibali che si cibano degli Eloi (post-borghesi).
La coscienza di questa barbarica nemesi storica tuttavia non allontana il time
traveller dal senso di civiltà. «I pallidi esseri sotterranei mi ispiravano una
specie di repulsione […]. È probabile che tale repulsione provenisse dall’influenza
esercitata su di me dagli Eloi. […] Esisteva un elemento del tutto nuovo, nella
disgustante personalità dei Morlocchi, qualcosa di inumano e di maligno, che
suscitava in me una ripugnanza istintiva. […] I miei ospiti del mondo superiore
dovevano avere rappresentato, un tempo, l’aristocrazia della razza umana, e i
Morlocchi i loro servitori meccanici; ma ormai tutto ciò apparteneva al
passato. […] Gli Eloi, come i re Carolingi, erano ormai ridotti a una semplice
espressione di vana bellezza; erano ancora padroni della superficie terrestre
unicamente perché i Morlocchi, esseri sotterranei da innumerevoli generazioni,
non sopportavano la luce del giorno; costoro, concludevo, preparavano gli abiti
degli Eloi e provvedevano ai loro quotidiani bisogni, per la vecchia, innata abitudine di servire gli altri1,
forse. Anche i cavalli continuano, ai nostri giorni, a raspare il terreno con
gli zoccoli, e gli stessi uomini provano piacere a uccidere gli animali per
sport: le antiche necessità, ormai superate, hanno fissato questi istinti in
modo indelebile, nella personalità umana. Ma senza dubbio il remoto ordine di
cose era già, almeno in parte, invertito; la Nemesi stava rapidamente
insinuandosi nel destino della razza più delicata: in epoche trascorse,
migliaia di generazioni prima, l’uomo aveva privato il suo fratello degli agi e
della vista del sole; adesso questo fratello compiva la strada inversa, e come
mutato! Gli Eloi avevano già cominciato a imparare di nuovo una vecchia
lezione, facevano di nuovo conoscenza con la paura. […] Tutte le attività,
tutte le tradizioni, le organizzazioni più complesse, le nazioni, i linguaggi,
le letterature, le aspirazioni, perfino il ricordo dell’uomo – come io lo
conoscevo – erano stati spazzati via, annullati; al loro posto ecco queste
fragili creature che avevano dimenticato la propria origine e queste Cose
bianche che mi incutevano tanto timore. Considerai inoltre la grande paura che
divideva le due specie umane, e per la prima volta ebbi l’esatta percezione – e
ne rabbrividii – di quella che poteva essere la carne che avevo visto su quella
tavola. Era troppo, troppo orribile! […] Evidentemente, in un dato periodo del
lunghissimo tempo occorso al decadere del genere umano, il cibo dei Morlocchi
si era fatto scarso, e forse essi erano stati costretti a nutrirsi di topi e di
animali simili. Anche ai nostri tempi, l’uomo è meno difficile e meno
raffinato, nella scelta del cibo, di quanto lo fosse in epoche precedenti: poco
più raffinato di una scimmia; il suo pregiudizio contro l’uso della carne umana
non nasce da un istinto ben radicato. E così quegli inumani figli degli
uomini... Tentai di studiare la cosa da un punto di vista razionale: dopo
tutto, costoro erano meno umani e ancor più remoti da noi di quanto lo fossero
i nostri antenati cannibali di tre o quattromila anni fa; l’intelligenza che
avrebbe reso questo stato di cose un insopportabile tormento si era spenta. […]
Cercai di allontanare da me l’orrore che mi pervadeva in ogni fibra, e di
considerare tutta la faccenda come una dura punizione inflitta all’egoismo
umano. L’uomo aveva vissuto felice fra gli agi e i piaceri valendosi della
fatica del suo simile; la sua parola d’ordine era stata una sola: “Necessità”,
e se ne era servito come di una valida scusa: con l’andar del tempo la
necessità era divenuta abitudine. Cercai anche di considerare col disprezzo di
Carlyle questa miserabile aristocrazia in piena decadenza, ma non mi fu
possibile. Per quanto grande fosse il loro invilimento intellettuale, gli Eloi
conservavano ancora un’apparenza troppo umana, perché non mi sentissi solidale
con loro e perché la loro degradazione e la loro paura non mi toccassero da
vicino». Il viaggio del protagonista di “The time machine”, oltre che essere
una fantascientifica
rappresentazione, è una psicologica esplorazione junghiana analoga al “Liber
novus” dello stesso Jung o alla “Divina Commedia”. C’è un passaggio del romanzo
wellsiano in cui l’inventore della macchina del tempo, scappato dal rifugio
sotterraneo ai Morlock, sviene come Dante all’ultimo verso del V canto dell’“Inferno”: «Then, for a time, I was
insensible» / «E caddi come corpo morto cade». Il viaggio nel tempo futuro è
altresì una ricerca junghiana dell’anima (Weena, la protagonista di «un flirt in miniatura») da
parte dell’animus (l’inventore). Simile prospettiva di analisi del testo di
Wells non è fuori luogo. Esiste un altro brano che mi è parso sorprendente in
virtù della sua visione anticipatrice di un fenomeno inesistente alla fine del
XIX secolo: il buco nell’ozono e l’innalzamento delle temperature medie del
pianeta Terra. «La
temperatura nell’Età dell’Oro era molto più calda di quella attuale, ma non
posso spiegarne la ragione». Questa profetica constatazione, non l’unica in
opere wellsiane, ha rafforzato la mia impressione del viaggio nel tempo di “The
time machine” quale esplorazione (parziale) all’interno dell’inconscio
collettivo, a guisa del “Libro rosso [o novus, che dir si voglia]”. Quanto
leggiamo nel romanzo di Wells è in gran parte la rappresentazione di una
dinamica costitutiva archetipica. Cioè una tensione bipolare tra estremi (Eloi
e Morlock) cerca di emergere in una sintesi mediatrice ed equilibrante. Eloi e
Morlock costituiscono degli eccessi comportamentali; dalla loro dialettica l’inconscio
collettivo deve elaborare un modello di comportamento, un archetipo che riesca
a salvare l’umanità da quella degenerata dicotomia. La bellezza de “La macchina
del tempo” sta nella capacità di introspezione psicoanalitica, nel suo valore
di monito. Questo romanzo non è soltanto una storia di fantascienza, è molto di
più. Nei suoi simboli parla l’inconscio collettivo. Il cannibalismo dei Morlock
rappresenta il ribaltamento del vampirismo
capitalista: se la storia dell’uomo camminerà lungo i binari degli eccessi,
la deriva porterà distopicamente il genere umano al degrado completo e la
civiltà alla scomparsa. Un aspetto del romanzo wellsiano, a proposito degli
Eloi, che ha attirato la mia curiosità, riguarda l’altezza fisica di costoro.
Nel testo si specifica la statura di uno di loro dicendo che era forse «four feet high»: intorno a 1,2
m. Si è posto pertanto il problema del rapporto tra il time traveller e Weena,
giacché costui dichiara nei di lei riguardi: «I had not […] come into the
future to carry on a miniature flirtation». Si parla in modo esplicito di una
forma erotica di legame interpersonale. In più di un sequel del romanzo, di successivi
autori differenti, il flirt tra il viaggiatore e Weena si evolve in un’esplicita
relazione amorosa la quale genererà pure figli. Il parametro suddetto di 1,2 m
corrisponde oggigiorno a quello di un soggetto umano nella fascia evolutiva di
8-9 anni. Ho approfondito questa problematica, impercettibile nelle
trasposizioni cinematografiche del romanzo. Weena agisce come una bambina
poiché riflette i caratteri degli Eloi, ma per il resto lei, da un punto di
vista somatico, non è una fanciulla decenne. All’epoca di redazione e
pubblicazione di “The time machine” l’altezza media di una donna inglese era
1,53 m, quella di un uomo 1,67. Tra il viaggiatore nel tempo e un Eloi esiste
dunque una differenza di 45 cm, il che è in linea con la statura media umana
attuale (1,65 m), la quale registra una gamma di normalità 1,35-2 m. In fin dei
conti Eloi e Morlock rappresentano gli eredi di un’umanità che nell’accorciamento
denota un simbolico abbassamento del grado di civiltà sino a toccare un punto
di notevolissima degenerazione. Se poi consideriamo i parametri antropometrici
medievali, di cui gli Eloi sembrano caricatura, e l’usanza sempre medievale di
dare in moglie le teenager al più presto, vediamo in quell’anno 802701 un
ritorno a un grottesco Medioevo, e ci rendiamo conto che il viaggio nel tempo
sia – come detto – una simbolica traversata nell’inconscio collettivo. L’altezza
media di un uomo inglese oggi è di 1,77 m, quella di una donna di 1,63: se
Wells avesse scritto “La macchina del tempo” nella nostra era, un Eloi sarebbe
stato un po’ più alto, e Weena è possibile immaginarla 1,35 m col corpo di una
dodicenne se rapportata agli standard odierni: una sorta di simbolica
futuristica nabokoviana Lolita o shakespeariana Giulietta. La prima ha 12 anni
(all’inizio), la seconda 13 e la madre le dice: «Devi pensare al matrimonio. Vi
sono a Verona signore di riguardo che, più giovani di te, hanno già figli. Per
conto mio, alla tua età ero già madre». Nei contesti sociogiuridici moderni un siffatto
interesse sessuale volto sulle minori di età superiore ai 12 anni non viene
incluso nella patologia e nel reato di pedofilia. È una tipologia clinica e
penale che rientra in altra categoria (ninfofilia). La legge italiana attuale
riconosce a una minorenne la capacità di un consenso
a un congresso carnale purché abbia superato i 14 anni, e sulla base di
questa discriminante prevede le possibili sanzioni. Le quattordicenni italiane
hanno una potenziale responsabilità davanti a eventuali figli, sebbene ancora
non siano maggiorenni. In Scozia la maggiore età è fissata alla quota di 16
anni, nel resto del Regno Unito e in Italia di 18. L’età del consenso femminile in Europa ha avuto una lunghissima
tradizione stabilita sulla soglia dei 12 anni, non senza delle eccezioni. La legislazione inglese la
innalzò a 13 nel 1875. Nel XX secolo la disciplina giuridica assunse un ordine
più consono a una migliore qualità della vita. Yvette Mimieux, l’attrice che
interpretò Weena nel film del ’60 (“L’uomo che visse nel futuro”), allora aveva
18 anni ed era alta 1,63 m. Il time traveller wellsiano va in là di 800.000
anni a causa delle restrizioni dell’ordine razionale conscio (freudiano
principio di realtà) a lui coevo? Il rilievo della statura personale ritornerà
nel “Brave New World” di Aldous Huxley quale connotato distintivo nella
funzione sociale2. Comunque, il fatto che Weena sia bassa è un’eredità
morfica distopica. In relazione a questo tema trattato è opportuno ricordare
che Wells si era risposato nel 1895: si era separato nel dicembre del ’93 dalla
moglie coetanea, una sua cugina, per una sua studentessa (il divorzio è proprio
del ’95). Avevano convissuto con grande scandalo allora di tutti, e poi si
erano uniti in matrimonio. La prima moglie era ancorata a schemi di giudizio e di
condotta di stampo conservatore-puritano. Essendo egli un sostenitore del
libero amore, avrà diverse amanti e figli pure da loro oltre che dalla seconda
moglie, Amy Catherine Robbins (1872-1927), una donna progressista come Wells,
la quale non disapprovava la cosa sino all’estremo. In materia di matrimonio
Wells era vicino a Marx. Il suo sentimentalismo vissuto al plurale lo pose al
centro di vari scandali. A 50 anni, ad esempio, ebbe come amante una ragazza di
19, da cui ebbe un figlio. Le sue idee e il suo successo nella veste
intellettuale gli procurarono una sincera e viva venerazione femminile: una sua
ammiratrice, una volta, si recò da lui indossando soltanto un impermeabile e le
scarpe; e quando egli la respinse, costei reagì male tagliandosi le vene. È
ipotizzabile che ci sia qualcosa di rimosso nel personaggio letterario di
Weena. Nella perdita della protagonista femminile di “The time machine” può
darsi si adombri, in maniera più o meno inconscia, la separazione coniugale;
mentre nella figura fisica di Weena invece si incarni Amy Catherine detta Jane
(alta circa 1,5 m). La dialettica junghiana animus-anima ha ne “La macchina del
tempo” dunque un senso, al di là delle apparenze schermanti, nei suoi simboli,
a volte un po’ misteriosi, tuttavia leggibili se accettiamo la terribile
navigazione all’interno del sistema inconscio universale. Basta salire su una macchina del tempo armati di altezza intellettuale e di coraggio,
mancanti a servi pavidi e mediocri i quali hanno l’unico inconsapevole rimosso
desiderio di cibarsi delle carni dei loro tiranni (il caso culminante nei
Morlock). La dicotomia Eloi/Morlock assume un profondo significato. I nomi
hanno un’ascendenza paronomastica orientale: Eloi da Elohiym (appellativo del
Dio veterotestamentario, ma termine indicante nell’Ebraismo anche gli dei); Morlock(s) da Moloch (altra
divinità). La parola Eloi compare nel
testo inglese di “The time machine” solo al plurale; Morlock(s) 50, in questo
caso si fa un uso al singolare 4 volte. Il fatto che Eloi non abbia un uso al singolare non mi pare casuale se collegato
al teonimo del Tanak. Gli Eloi sono prodotto evolutivo di una vampiresca borghesia
(nel romanzo wellsiano) la quale in un mio saggio, dove parlo dello sviluppo di
correnti irrazionalistiche nel pensiero occidentale, ho qualificato, di fronte
al resto della società, come gruppo di Elohiym
falsi e bugiardi. Wells ha espresso nel suo romanzo in esame, in modo
figurato, una sua trattazione di temi da me là nella mia sede affrontati in
altra forma di studio3. Nella maniera in cui i proletari (futuri
Morlock) sono stati sacrificati all’ipocrita altare borghese, così nell’anno
802701 simili esseri abbrutiti, rovesciando i ruoli hanno attuato una disumana
cannibalesca nemesi. Moloch era una divinità semitica cui venivano sacrificati
dei bambini: il che spiegherebbe pure le caratteristiche somatiche e psichiche
degli Eloi nella finzione wellsiana. Per inciso: anche il Tanak prevedeva
sacrifici umani. La presunta morte di Weena, sul finire del romanzo, per colpa
dei Morlock, tinge il racconto di un cupo distopico: il processo di
individuazione junghiano crolla poiché prevale il male di uno di quei due lati
di sintesi archetipica (rappresentati dagli Eloi e dai Morlock) la quale non
consegue un punto di mediazione. Wells non dice se Weena, scomparsa, sia
veramente perita; è il time traveller a dare la cosa certa. Il protagonista
riesce a sfuggire ai Morlock e a recuperare la sua invenzione, sottrattagli da
loro, grazie a cui poi compie un ulteriore tragitto in avanti nel tempo alla
volta di una nuova junghiana profezia (cap. XI): la razza umana scomparirà,
prima o poi, dalla faccia del pianeta. La prima pubblicazione di “The time
machine”, a puntate sul periodico “New Review”, all’undicesimo capitolo
conteneva una variante, un’inserzione forzata di una sezione eliminata da Wells
in seguito. Il suo editore aveva infatti preteso la descrizione di una
successiva fase degenerativa dell’umanità dopo gli Eloi e i Morlock. È
comprensibile, nell’Inghilterra alla fine dell’Ottocento, la suggestione
proveniente dal darwinismo, la cui novità di veduta poteva attirare
l’attenzione dei lettori. Lo stesso Wells non è immune dall’applicare un
criterio evolutivo-comportamentista al genere umano degradantesi in senso
distopico (il biologo darwinista Thomas Henry Huxley fu suo professore
universitario a Londra). Tuttavia egli non voleva rappresentare l’umanità in
una sua ulteriore fase di caduta biologica. Una visione narrativa completamente
tragica approdante nell’estinzione troverebbe un margine di speranza in
un’emigrazione altrove a tempo debito. In ogni caso la nuova specie post-umana
descritta, composta di esseri erbivori somiglianti a dei canguri, non
scaturisce dal progetto letterario wellsiano. A conclusione della mia analisi
voglio sottolineare il fatto che il posteriore “Brave New World (1932)”
huxleyano appaia una tappa, una distopica hegeliana figura fenomenologica
intermedia, di avvicinamento evolutivo in direzione dell’era terrestre segnata
dalla dicotomia wellsiana Eloi/Morlock. Il viaggiatore del tempo indica la
causa di tale frutto nell’impantanarsi «sul benessere, in una società
perfettamente equilibrata la cui parola d’ordine era “sicurezza” [towards
comfort and ease, a balanced society with security and permanency as its
watchword]». E il motto del “Mondo Nuovo” di Huxley è: «COMMUNITY, IDENTITY,
STABILITY». Il destino (distopico) del genere umano pare segnato. Riguardo a
questa interazione tra Wells e gli Huxley: non trascuriamo che avessero
collaborato, durante la prima metà degli anni ’30, nella redazione di saggi,
Herbert George e Julian (biologo, fratello di Aldous; l’altro biologo
ricordato, Thomas Henry, era loro nonno). L’autore di “The time machine” era
fautore di uno Stato mondiale allo scopo di conquistare una kantiana pace perpetua. Aldous Huxley
nel “Brave New World” rielabora una simile idea non tanto in chiave parodica
quanto distopica. Altresì il film “Metropolis” del ’27, di Fritz Lang, contiene
eco wellsiana da “La macchina del tempo”.
Note
1 Una mia disamina sopra il “Discours sur la servitude
volontaire”
2 Al “Mondo nuovo” ho dedicato un saggio
3 “Critica dell’irrazionalismo occidentale”
Il brano della tragedia “Romeo
e Giulietta” è stato preso da una pubblicazione nei tascabili economici Newton
del 1993, quelli de “La macchina del tempo” in italiano da un’edizione della
Rizzoli del 1975.
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Weena (Yvette Mimieux) e un Morlock |
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”