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sabato 9 dicembre 2017

MUSSOLINI, IL FASCISMO E LA BORGHESIA

di DANILO CARUSO

Nell’Italia fascista il capitale è agli
ordini dello Stato; bisogna emigrare
verso i Paesi beatificati dagli immortali
principi per constatare un fenomeno
nettamente opposto: lo Stato
prono agli ordini del capitale.

Benito Mussolini (28 ottobre 1937)


Parlando della dialettica storico-politica in Italia tra fascismo e borghesia, a scanso di equivoci, premetto che nella seguente argomentazione non si cela l’intenzione di condurre un’irragionevole e inammissibile apologia fascista: il fascismo sposò amicizie le quali causarono la sua suicida involuzione. Mi riferisco in particolar modo al nazionalsocialismo1 (ma considero altresì un gravissimo errore aver restituito alla Chiesa cattolica una dimensione politica statale). Non si possono accantonare gli effetti negativi prodotti dalla partecipazione all’ultima guerra mondiale e dall’alleanza con la Germania nazista. Tuttavia una sobria onestà analitica dovrebbe riconoscere che i due grandi conflitti novecenteschi sono nient’altro che una capitalistica guerra del Peloponneso. Nell’ambito dello scontro europeo anglotedesco si calò il capitalismo americano che lucrò non poco da quest’attrito di interessi. Nella prima fase l’Italia si ritrovò nel campo dei vincitori, nella seconda – a partire dalla II guerra etiopica – a causa di un’ostilità alla sua espansione politico-economica mutò il suo orientamento nella scelta di partner esteri. La conquista fascista dell’Abissinia nel 1935-36 soddisfece esigenze capitalistiche e velleità sabaude di magnificenza, analoghe a quelle dell’occupazione liberale della Libia nel 1911-12 (e, per dirla tutta, ancor prima, Francesco Crispi fu la versione beta di Mussolini). Una storiografia gnostica, di stampo angloamericano, impostata su una rigida dicotomia “buoni/cattivi”, stravolge la comprensione obiettiva di qualsiasi fatto. La storiografia può esprimere giudizi morali, i quali anzi sono necessari nelle circostanze negative: la barbarie della Shoah esige un pesantissimo ammonimento affinché tragedie simili non si ripetano mai più. Però, per fare qualche esempio, non molti ricordano ai buoni americani le discriminazioni razziali nei confronti dei neri e l’incivile trattamento riservato agli Indiani, ai comunisti lo sterminio ucraino, o ai liberali il fatto che negli anni ’30 l’impero coloniale inglese controllava 1/3 delle terre emerse. Ovviamente qualsiasi comparazione non giustifica la cattiva condotta di nessuno, e credo appunto che suddetta dicotomia gnostica sia da rivedersi nel senso di rintracciare le responsabilità di tutti. Dunque si scoprirà che di rado nella storia compaiono “i buoni”, e che in loro luogo ci sono più che altro “speculatori-mascherati-da-buoni”. L’episodio di Pearl Harbor nel ’41 fu conseguenza di una studiata induzione americana al fine di entrare in guerra contro il Patto tripartito; la stessa vicenda di Danzica nel ’39 non è di solito altrettanto ben riportata (i militari polacchi, patrocinati dagli Inglesi, accolsero la possibilità bellica con provocatoria spavalderia e slancio sin troppo ottimistico). Ciò, naturalmente, non legittimava né nazisti né fascisti a entrare in guerra, ma a posteriori chiarisce l’inesistenza di una pura ideale contrapposizione. Che cosa c’è di “buono” nello sgancio di due bombe atomiche sul Giappone nel ’45? Dinamiche capitalistiche hanno prodotto due conflitti mondiali, i quali in realtà rappresentano un solo grande fenomeno storico di affermazione di un polo internazionale dominante. Le vicende della borghesia italiana, in seguito al pericolo rosso del primo dopoguerra, non sono meno semplici. Definire il fascismo una dittatura è un’espressione invalsa presso gli storici che non rende la sostanza costituzionale su cui poggiava il regime (termine che trovo più adeguato) fascista: a norma dello Statuto albertino l’esecutivo rispondeva alla Corona, da cui traeva delega (anche se era seguita la prassi della fiducia parlamentare). Il re diede l’incarico a Mussolini nel ’22 e glielo revocò nell’estate del ’43, facendolo per giunta arrestare dopo. Se la Casa Savoia non avesse trovato utile il governo fascista per salvare la monarchia e l’apparato sociale borghese, se ne sarebbe sbarazzata prima. Non condivido il punto di vista che attribuisce in toto alla “dittatura” la restrizione delle libertà in Italia nel corso degli anni ’20. Un simile piano rientra nel progetto di tutela monarchico-borghese, che consentì sì ai fascisti di prendere il potere. Ma occorre ricordare che i liberali cercando di servirsi di questi in funzione antirivoluzionaria non fecero altro che portare a compimento una decadenza nazionale che già era maturata nel periodo umbertino (scandali bancari, Bava Beccaris, et similia). All’interno del fascismo confluirono poi quasi tutti (e non è da sottovalutare il fatto che Mussolini avesse invitato i socialisti a entrare nel suo primo governo, senza ottenere risposta positiva). Il clima creatosi nel primo dopoguerra, con la delusione per la “vittoria mutilata”, aggiuntasi ai precedenti fermenti sociali, creò in Italia un originale palcoscenico su cui Mussolini divenne il primo attore. Comunque anche qui non sono da trascurare alcuni dettagli. Il “mussolinismo” non coincideva con il fascismo, cui altri diedero apporti determinanti nella sua definizione (D’Annunzio, Gentile, i sindacalisti fascisti, et ceteri). Il clima di violenza che si instaurò tra i gruppi del fascismo contrapposti a marxisti e liberali è figlio di un panorama storico e ideologico internazionale, perciò non può essere caricato solo su una parte: i primi sovversivi antidemocratici erano stati di matrice marxista, tra cui si trovavano coloro i quali da cui l’Italia monarchica e liberal-borghese voleva liberarsi (durante la sparatoria dell’esercito sulla folla a Milano nel 1898 non c’era un governo fascista). La violenza, che è in ogni caso, in ogni luogo, in ogni tempo, da rifiutare, condannare, nella veste di strumento di risoluzione di qualsiasi controversia, colpì tutti: sono notissimi i casi di Gobetti e Matteotti, ma moltissimi ignorano l’uccisione del deputato fascista Casalini al fine di vendicare la morte del secondo. E mentre Gramsci stava in carcere, Croce stava in Senato (di nomina regia): tutto ciò a testimoniare che il telaio liberal-massonico, che aveva consentito al fascismo di assurgere alla guida del governo, era un meccanismo operante anche a difesa di liberali dissidenti. Individuare in Mussolini allora un capro espiatorio a posteriori di situazioni che avevano un più ampio margine di elaborazione sembra un’operazione storiografica che rievoca l’incendio della casa di Socrate e il suo reale processo a causa dell’essere stato maestro di Crizia e Alcibiade. Il duce da giovane fu un tipo impetuoso, un massimalista apprezzato da Lenin: riconoscendo tutti i suoi difetti e tutti i tragici errori del fascismo, non si può disconoscere che l’Italia degli anni ’20 e ’30 fosse un’insula felix se paragonata ad altri contesti socialmente più instabili, la cui sorte fu aggravata dalla grande crisi economica. Nel giovane Mussolini si può rintracciare un rivoluzionario marxista che imparò due lezioni: quella di una politica “machiavellica”, e quella che gli consentì di far evolvere la sua visione politica in senso spiritualista. Al rivoluzionario si accompagnò dunque l’idealista (da qui la porta aperta a Gentile). Il fascismo è una forma di socialismo spiritualista (nata dal marxismo), il comunismo è un socialismo materialista: fascisti e comunisti sono imparentati (Bombacci e la RSI docent). Credo che Plutarco avrebbe accoppiato Mussolini e Trotzkij: due idealisti sui generis che pagarono conti sproporzionati. Pertanto pongo il dubbio se sia da chiedersi: quanto Mussolini è stato un “utile idiota” della monarchia e della borghesia in Italia? L’elettorato del più grande partito comunista occidentale è stato in parte un lascito dello Stato sociale fascista di chiara impronta assistenzialistica. Non sono stati accidentali i rari episodi in cui durante la cosiddetta I Repubblica MSI e PCI si ritrovarono assieme ad amministrare: qual è quel partito di destra che ha un sindacato d’area? «Il Fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l’unità statale che le classi fonde in una realtà economica morale; e analogamente è contro il sindacalismo classista» (“Enciclopedia Treccani”). La singolarità dell’esperienza italiana del fascismo era fondata su un irripetibile equilibrio tra monarchia, borghesia, Chiesa cattolica e fascisti (questi ultimi fra di loro di assortito orientamento ideologico): non è neanche facile delineare l’autentica ideologia fascista al di là dell’opportunismo giacché era un cantiere aperto. È giusto nonostante ciò imputarle i suoi peggiori difetti (sorti in momenti diversi): l’antisemitismo e il razzismo, l’imperialismo, la restrizione liberticida del pluralismo partitico, la reintroduzione della pena di morte. Tuttavia pare lecito sostenere che il fascismo fosse nato e sia morto stando a sinistra, in una gestazione agitata e in un suicidio ideale costituenti un rapporto di odi et amo nei riguardi del patriarca Marx. Oggigiorno appioppare l’etichetta “fascista” a tutto ciò che è antidemocratico riproduce un’iperbole gnostica: non esistono i fascismi, esistono – al di là di esso – totalitarismi (sovietico, nazista, capitalista, cristiano). Nessun antisemita verrebbe definito “inquisitore”; eppure la più grande organizzazione di discriminazione in tal senso è stata la Chiesa cattolica. I nazisti sono stati degli epigoni criptoluterani, e i quemadores dell’Inquisizione spagnola riservati ai perseguitati non differiscono dai forni crematori tedeschi (con la differenza che i nazisti bruciavano cadaveri, i cattolici persone vive). Chi rileva un’aria sacerdotale in un totalitarista è George Orwell in O’Brien (“1984”)2. La Chiesa di Roma, dall’Editto di Teodosio all’Illuminismo, ha compiuto quello che si rimprovera al fascismo in misure molto più ampie: istigazione alla guerra, limitazioni varie alle libertà, persecuzione e uccisioni dei dissidenti, mantenimento di un sistema totalitario e antidemocratico (dire ciò acqua passata non rende giustizia alle vittime di qualsiasi sistema soppressivo: l’ignoranza non comporta un’assoluzione). Ipazia di Alessandria fu ammazzata da fanatici cristiani, i quali in maniera anacronistica e distorta non pochi definirebbero “squadristi”. Ecco perché la storia non è una stanza dove poter collocare un armadio storiografico gnostico con dentro uno scheletro fascista: l’obiettività prima di tutto, cadesse il Paradiso. Il fascismo ebbe due anime: una socialista proletaria, l’altra nazionalista monarchica borghese. Le quali urtavano di continuo inter se dietro la facciata del regime. E i frutti della prima anima non furono avvelenati al pari di quelli dell’altra (nel PNF erano confluiti ufficialmente tutti i nazionalisti, i quali non erano di sinistra, ma di autentica destra). Il fascismo non è un male integrale, male assoluto sono i suoi errori pratici e le idee connesse (in comune con il nazismo). E poi com’è che a questo male assoluto sono sopravvissute diverse sue creazioni (alcune in origine buone, altre no); per fare degli esempi: l’IMI, l’IRI, il progetto di riforma agraria (mirante a dare la terra ai contadini espropriando i latifondi), il Codice Rocco (tradizionalista e filocattolico), i Patti lateranensi; la stessa forma istituzionale repubblicana ebbe un consenso referendario maggiore nei territori della ex RSI (Togliatti non era poi così ostile alla sopravvivenza della monarchia). Il fascismo, inoltre, aveva cominciato a concedere la cittadinanza italiana a gruppi di Libici, una cosa antitetica al razzismo (paragonabile, se così si può dire, in qualche misura allo ius soli). Tutto ciò non serve naturalmente a bonificare il fascismo; fascista è ogni suo sbaglio, figlio di un machiavellico opportunismo. Quest’analisi dà lo spunto di capire che, in fin dei conti, i neofascisti di oggi sono seguaci del peggio di quell’esperienza (ossia dell’anima nazionalista). Se non è un bene in sede di esame storico fare di tutta l’erba un fascio, è un bene in ambito sociale proibire le manifestazioni apologetiche fasciste (e naziste): non tutti colgono la verità; gli ignoranti, i fanatici e i violenti non distinguono oltre l’ottusità. Gli atti di fanatismo manifestano una patologica irrazionalità di fondo, la quale non ha niente a che spartire con un dibattito scientifico scaturente dal quieto confronto. Il fascismo è finito nel 1945, una sua rinascita pura è impossibile: possibili restano i fenomeni di deteriore richiamo, da condannare senza ombra di dubbio (anche avvalendosi delle misure cautelari previste dalla legge); possibili rimangono i richiami agli aspetti positivi di quella politica sociale, i quali non sono condannabili perché fascisti. Distinguere rappresenta il compito di un bravo storico: di un frutto marcio si può mangiare la parte sana; chi getta una pera marcita solo su un fianco ha compiuto uno spreco, mostrando scarsa intelligenza. L’analisi e la comprensione storiche non debbono ammettere in nessun caso costruzioni critiche gestaltiche pro o contro se queste non sono sostanzialmente ammissibili. Le ricostruzioni della storia e la valutazione delle dinamiche devono prescindere in ogni caso da forme di relativismo contingente. Generalizzare il fascismo come un fenomeno in toto negativo non giova alla sua conoscenza. Abbiamo visto, con sorte opposta, il destino della Chiesa e del Cristianesimo, strano Regno di Dio in terra, responsabile di crimini contro l’umanità. Una storiografia seria non teme di guardare le cose in faccia e di rispecchiare le obiettive impressioni. Viceversa si trova inganno, propaganda di parte – a scapito o a beneficio – lontana da un’impostazione scientifica. Che fine ha fatto l’anticomunista apprezzamento del provvidenziale fascismo salvatore delle italiche e cattoliche sorti? La conclusione finale cui approdiamo è la seguente. Il fronte conservatore italiano, impaurito dall’eventualità di un rivolgimento sociale sulla falsariga della Russia, colse la possibilità, a proprio vantaggio, di dividere il fronte socialista nazionale e contrapporre i fascisti scissionisti ai marxisti. La borghesia liberale pensò di servirsi del fascismo e di Mussolini; quest’ultimo (la cui interventista testata “Il Popolo d’Italia” era stata sostenuta pure dagli Inglesi) credette di sfruttare quelle paure allo scopo di raggiungere il governo. Chi si servì di chi? Un sottile e instabile gioco di equilibri durò dal 1922 al ’43. La storia dice che Mussolini, alla fine, pago il prezzo dell’ambizione in politica estera dopo aver voltato le spalle al capitalistico schieramento angloamericano, il quale non gradiva le contrastanti ascese economiche dell’Italia fascista, della Germania nazista e del Giappone (tre Paesi legati da un’alleanza militare). L’URSS allora costituiva soltanto un timore ideologico-sociale; la guerra la trasformerà in antagonista sostanziale degli USA. Se guardiamo gli eventi e le cause spogli di spiriti di convenienza davvero la historia può esserci magistra e insegnarci che non esistono differenze razziali umane, diversi popoli, bensì una unica popolazione mondiale attraversata da diverse lingue, differenti costumi, varie religioni, così come ciò accade all’interno di quasi ogni attuale singolo Stato della Terra, dove esistono dialetti e tradizioni differenti. Le contrapposizioni violente, l’ideale di una ricchezza indefinita turbano qualsiasi scenario; contribuisce al progresso umano la pacifica distribuzione su scala planetaria di tutte le forme di benessere. Lasciare concentrare la ricchezza nazionale nelle mani di una ridotta percentuale a danno di tutti gli altri non porta mai “buoni” frutti. Il contraddittorio fascismo, alla ricerca di una sorta di aristotelica politeia, autore della sostituzione della – non sempre condivisibile – “lotta di classe” con un’insana e inaccettabile “lotta dei popoli”, dopo l’Unificazione, è stato il solo a provare una soluzione al problema della sperequazione: il che offre un motivo per analizzarlo con migliore attenzione laddove esso offra spunti in relazione a ciò.






Mussolini parla contro i nazisti (1934)


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note di critica (2017)”

1 Per approfondire i temi qui affrontati invito alla lettura di tre unità del mio saggio intitolato “La morte delle ideologie (2011)”: “La fabbrica del male”, “La democrazia corporativa”, “L’utopia della RSI”.




2 Una mia monografia analizza la distopia orwelliana: “Il Medioevo futuro di George Orwell (2015)”.

giovedì 30 novembre 2017

RADICI SUMERE DI EBRAISMO E CAPITALISMO

di DANILO CARUSO

Dal mio punto di vista e di studio, il capitalismo non è un fenomeno col DNA moderno. Degli studi mi portano alla conclusione che ciò che dice Weber a proposito dell’etica protestante abbia già una radice nell’antica mentalità sumera, la quale a sua volta ha influito tramite l’attivismo ebraico transitato grazie a Lutero nel Protestantesimo. È un discorso complesso, in parte affrontato nel mio saggio “Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016)”1. Mi resta da analizzare ed esporre l’ascendente sumero sull’Ebraismo, e spiegare meglio la nascita religiosa dell’attivismo e il suo sviluppo nevrotico (quale Weber tratta in relazione all’etica protestante). Due settori dei miei studi hanno riguardato da un lato la tradizione religiosa giudaicocristiana e dall’altro la fenomenologia e le cause del capitalismo. Senza pretesa alcuna di originalità, in diversi saggi via via pubblicati, ho esposto risultati di analisi e riflessioni. Qui vorrei unificare in una base comune lo sviluppo di quelle mie ricerche, affinché quei rami possano avere un solo tronco, il quale mi consenta di restituire un modello unificato di interpretazione storica e sociologica della Civiltà occidentale nelle sue grandi linee. Il tutto è servito se non altro a me allo scopo di comprendere come naviga la barca della storia occidentale in cui mi trovo. A proposito dell’Oriente, mi riservo l’opportunità di approfondire ulteriormente in futuro le differenze e la dialettica con l’Occidente. Adesso, parlando dei Sumeri, e dunque dell’incipit storico che a me interessa, tengo a puntualizzare alcune cose. Ho già detto di pensare a un’origine aliena dell’umanità, ma in un modo che non ha niente a che vedere con le idee di Zecharia Sitchin2. Io ipotizzo un’emigrazione interplanetaria. Sul pianeta Terra sarebbe stato lasciato un nucleo di esseri umani alla ricerca di luoghi adatti alla vita. Da qui sarebbe sorta la civiltà umana terrestre, con i suoi difetti, bene o male in cammino progressivo nell’ascesa tecnologica durante i secoli (tutto sommato una platonica reminiscenza scientifica, non poco ostacolata da nevrotici nemici). In questa colonia sulla Terra, a un certo punto, sarebbe prevalso un senso dell’abbandono il quale avrebbe avuto come risposta psicologica e sociologica la nascita delle religioni. Mi ha colpito molto rinvenire presso i Sumeri la sensazione di essere in balia di qualcosa di superiore e di oscuro. Perciò, a ritroso, ho circoscritto uno stato di abbandono. Se esso ha generato varie religioni (anche con intelaiature concettuali comuni), la “meraviglia” (più libera da paura e nevrosi) ha prodotto la filosofia e la ricerca scientifica. Ora chiarirò come la mentalità sumerica contenga elementi capitalistici poi sviluppatisi in Occidente mediante il transito nell’Ebraismo della vocazione attivistica3. Del fatto che il Giudaismo sia sorto dalla fusione di un portato egizio-atonista e di un altro asiatico ho già discusso4. Qua approfondirò questa seconda componente nel suo essere sprone dell’attivismo e nei suoi elementi di comunanza con la cosmologia ebraica. Non dimentichiamo la biforcata matrice di sintesi nella religione giudaica la quale ha due padri: uno spirituale (Mosé, simbolo del pensiero egizio-atonista) e uno biologico (Abramo di Ur, simbolo del pensiero mesopotamico). Iniziando la spiegazione, ricordo che la fase preistorica precedente la civiltà sumerica nota (3500-2004 circa a.C.) abbia potuto contemplare un regime sociale ispirato a principi di democrazia (socialismo primitivo, stato di Natura rousseauiano, fase comunista marxiana?). Le città sumere storiche si rivelano, nella concezione che le ha prodotte, una puntualizzazione di una più ampia sostanza universale sottomessa alla potestà divina nella quale risiede il vero potere politico. Pertanto la città appare una sorta di azienda di sussistenza umana inquadrata in un sistema di effettiva teocrazia, dove gli Dei sono – o meno – i fornitori del benessere e gli interlocutori nei cui confronti gli uomini riconoscevano un obbligo di produzione e di servizio: gli Dei sono dei soggetti che consumano dai beni attraverso le liturgie sacrificali, sono loro a concedere ambite condizioni di migliore e lunga vita. In una simile visione si intravedono i germi dei venturi concetti liberal-capitalistici di “mano invisibile” e di weberiana predestinazione. Il sistema religioso sumero ruotava attorno al tema della produttività della Natura e al diffuso modello di divinità che muore e risorge. Al di là della classica coppia ctonio-uranica, era prevista una specifica figura divina (Enlil) la quale presiedeva al futuro di tutto e di tutti in maniera inderogabile, cosicché non è difficile pensare alla nevrotica predestinazione luterana (e poi capitalistica): accanto a queste linee generali il sistema oscilla tra predestinazione e giudizio divino attuale. Un meccanismo di nevrosi basato sullo schema “peccato/punizione” spinge all’attivismo volto alla ricerca del successo al fine di testimoniare il riscatto e la predilezione divina. La persona del regnante mostra quale sua legittimazione del ruolo assunto, con connotazioni religiose di sacerdote difensore del “sacro”, il fatto di essere beneficiario di un’elezione divina. Nel complesso architettonico sacrale la dimensione religiosa di culto e quella produttiva e di conservazione dei beni si uniscono in una strana accoppiata preweberiana: il tempio appare una specie di banca ante litteram, un ente di deposito e di concentrazione della ricchezza materiale (protoaccumulazione capitalistica). Nella realtà sociale sumerica però non tutto era assorbito nella proprietà religiosa: la presenza della proprietà privata diede spazio a una classe di proprietari i quali seppero emergere in virtù della loro abilità. Una parte del settore produttivo, soprattutto per ciò che ineriva all’agricoltura, era in mano privata laddove si erano concentrati gruppi di Semiti con vocazione al nomadismo. Nella Mesopotamia sumera esistevano latifondi privati accanto a piccoli proprietari e alla proprietà religiosa. I latifondisti si avvalevano per la lavorazione dei campi di soggetti asserviti (in seguito a motivi bellici o giudiziari). Questi ultimi godevano di tutele sufficienti a garantire la loro qualità produttiva, quasi fossero moderni lavoratori ed esistesse in nuce il principio di una prassi di sfruttamento della manodopera umana. Non è d’altro canto da trascurare la significativa esistenza dell’opera di tessitura, i cui manufatti traevano la materia prima dagli animali allevati: la prima Rivoluzione industriale inglese fu fondata sulla manifattura. Quella sumerica stupisce a causa della sua varietà e della gamma di lavorazione del suo artigianato (dal legno all’oro). I frutti del lavoro entravano poi in un circuito commerciale esterno: Ur, la città di Abramo, esportava verso l’India. Passando a temi più strettamente religiosi è bene rammentare che la divinità collegata al Sole a lungo andare in Mesopotamia si fuse con l’altra preposta alla produttività naturale: il che offre un primo ponte di marca teologica in direzione dell’Ebraismo (Utu, Dio del Sole, era il garante dell’ordine morale e si spostava sopra un carro). Nell’ultimo periodo della civiltà sumera Ur emerse sulle altre città, e la teologia intraprese il percorso di quel sincretismo che ho già rilevato, più spinto, nell’elaborazione teologica giudaica. La coppia divina a monte “maschile/femminile”, l’androginia sono argomenti non estranei alla vita religiosa ebraica, la quale nella sua veste ufficiale si proietterà verso un nevrotico assetto maschilista5. Un’importante secondo ponte di collegamento fra la cultura sumerica e quella influenzata ebraica viene offerto dall’esame delle rispettive cosmologie. L’analisi che ho svolto altrove circa l’ascendenza della mitologia egizia sul Giudaismo6 trova sul versante asiatico-mesopotamico una specularità nell’architettura dinamica concettuale, a conferma di quella mediazione socioreligiosa tra le due originarie componenti del popolo giudeo. La cosmogonia dei Sumeri infatti prevedeva la genesi del mondo dall’acqua, da un oceano ingenerato (la Dea Nammu), cui sarebbe seguita l’accoppiata cielo e terra (Anu e Ki). Il figlio della coppia uranio-ctonia, il Dio Enlil (lil = vento), separò il padre e la madre per mezzo di un’azione determinante (lo strumento è soffio, aria, spirito). Al di sotto di una calotta semisferica (il cielo), poi la terra si trova separata dalle acque del mare. I vari seguenti Dei sono un prodotto di questo meccanismo di messa in ordine (nascerebbero dall’unione di Enlil, principio determinante maschile, con Ki): gli Dei non sono immortali. Esiste altresì uno spazio sotterraneo (Inferi), residenza finale dei defunti, concepita in forma tenebrosa; perciò il bello della vita si consumerebbe nel corso dell’esistenza mondana. Un aspetto molto rilevante, al fine del mio discorso generale, è l’istituzione da parte dei Sumeri della scrittura. Questa sorge con l’obiettivo di soddisfare esigenze pratiche legate alla vita sociale ed economica. La mia impressione è che, in origine, siamo di fronte alla creazione di un ristretto/restrittivo orwelliano newspeak, il quale si evolverà, sfuggito di mano, non più controllabile grazie a un ampliamento di vocabolario in direzione di concetti sempre più raffinati e alla volta della nascita della filosofia: le pratiche scritture consonantiche del Vicino Oriente Antico osserveranno il salto di qualità del greco antico allorché questo nella Ionia, zona natia della filosofia, introdurrà le vocali per servirsi di una scrittura precisa, non ambigua (una chiara esigenza di maturità intellettuale). La produzione sumerica dei testi offre l’opportunità di rilevare in quella cultura la presenza di alcuni temi transitati nel Giudaismo: 1) la produzione dell’essere umano usando la terra (Adamo); 2) la dicotomia (protoscontro capitalista) “economia agricola / intraprendenza dell’economia pastorale (manifattura)” (Caino e Abele); 3) il disagio ingiustificato (Giobbe e la predestinazione capitalistica). Una cosa che si nota nelle tre mitologie da me poste in comparazione è la presenza “mistica” dei quattro elementi empedoclei e degli archai ionici: acqua, aria (soffio, vento, spirito), fuoco (luce, Sole), terra. La filosofia quando è (ri)nata sulla Terra ha iniziato a far chiarezza, nell’ambito del pensiero, su quanto fosse oscuro e impulsivo. In dette mitologie fisiologiche, non metafisiche, l’uomo appare un composto biochimico risultato della composizione di terra e acqua, animato da un’azione attualizzante attraverso l’aria da parte di un ente supremo. La conoscenza e la fede sono incompatibili poiché la seconda si fonda su ignoranza e compulsione. Quelle società che non curano l’istruzione e la scienza producono climi da Medioevo. Il caso del mondo sumerico riflette una forte ambiguità rousseauiana: ho notato un’impostazione sociale tesa tra social-assistenzialismo e protoliberismo, il che la dice lunga accanto alla loro introduzione del “concetto di proprietà privata”. Mi domando quale fosse la “storia prima della storia. Ad avviso di Marx il capitalismo, in quanto fenomeno sociale, ha una natura espansiva mirante all’ampliamento del mercato. Ciò avviene senza dubbio in maniera indefinita e totalizzante tuttavia solo in una prima fase di un meccanismo il quale si propone di essere ciclico (un eterno ritorno). È un dato di fatto che il mercato mondiale non è infinito, e ciò urta contro lo slancio capitalistico di produrre e vendere illimitatamente. I muri su cui sbattono i capitalisti aprono una seconda fase dialettica, giacché un circuito del tutto globalizzato su questo nostro pianeta si mostra un ostacolo insuperabile (se non mediante una prospettiva interplanetaria). L’accumulo di denaro comporta nella coscienza dei grandi imprenditori una pulsione all’investimento continuo, la quale un mercato globale non agevolerebbe a causa di una contesa capitalistica che si è saturata nella diffusione dei beni. Ciò rappresenta il grande problema dei capitalisti più forti e più ricchi. Il rimedio, teorico e pratico a loro prospettantesi supera due pietre d’inciampo: la questione su accennata dell’imbottigliamento, e l’impostazione ideologica marxista la quale indicherebbe in un sistema economico globalizzato il momento del non plus ultra per la presa di coscienza proletaria (anticamera inderogabile del crollo del capitalismo). Dunque un regresso capitalistico, un suo moto retrogrado, praticato in modo metodico rimedia quella dimensione di infinito mancante al “momento totale” dell’espansione. Il sacrificio rituale di porzioni di mercato mondiale crea ex novo dalla loro distruzione spazi da colonizzare. Naturalmente si tratta di interventi provocati in aree della Terra adatte a ciò, impedendo effetti collaterali deleteri di ritorno. Ad esempio, una guerra civile in uno Stato non povero e a economia liberista non deve creare contagi dannosi alla parte politica capitalista dominante. Tale fase negativa se è tale nei riguardi di chi la subisce, non lo è invece in relazione a chi la genera. Alimentare conflitti bellici è una cosa che fa la fortuna dell’industria di guerra: la vendita di armamenti dal punto di vista del profitto non rappresenta una differenza rispetto al commercio di beni per una ricostruzione. Il binomio distruzione/riedificazione viene spostato sulla scacchiera internazionale di continuo in base alla migliore occasione: il circolo guerra/ricostruzione pare girare sul pianeta a guisa di un tornado capitalistico. Di sicuro le dinamiche connesse non sono sempre sotto un controllo matematico né tutti gli eventi simili hanno necessariamente una siffatta origine. Permane comunque la possibilità di sovvertimenti, in interiore o fra Stati, cagionati da altri motivi estranei all’accumulamento di capitale. Il capitalismo ha già causato la distruzione di altri pianeti nel corso delle sue dinamiche espansive? Venere ha una situazione ambientale compatibile con uno stadio avanzatissimo prodotto da inquinamento industriale; la fascia degli asteroidi nel nostro sistema solare, in virtù della legge di Titius-Bode, dovrebbe essere un pianeta (chi l’ha distrutto?); se Marte era simile alla Terra, l’eventuale distruzione del suddetto pianeta X avrebbe provocato la scomparsa della vita su di esso (Venere possiede un’atmosfera; Marte, più lontano dal Sole, è il “pianeta rosso”: altra stranezza, assieme agli asteroidi). Esistevano pianeti socialisti (non necessariamente marxisti)? Ritengo che l’ermeneutica delle tavolette sumere proposta da Sitchin sia troppo condizionata da ipotesi fantasiose: dall’eugenetica creativa al fantomatico pianeta Nibiru, passando da una lettura che non va al di là dei simboli. Da junghiano vedo nei miti delle verità, le quali però non coincidono con la superficie. Ogni ermeneutica testuale deve essere contestuale e non proiettare indebite categorie posteriori sulla facciata, più o meno, fantastica; l’interpretazione di concetti celati deve invece avvalersi dei migliori strumenti di comprensione di qualsiasi epoca. La lettura psicosociologica può far emergere informazione non apertamente storiche, tuttavia da maneggiare con estrema cautela. In fin dei conti, gli Anunnaki di Sitchin, bramosi di oro al fine di migliorare la loro esistenza, il loro benessere, sino al punto di produrre una categoria sociale di nuovi servi, non mi sembrano incompatibili con le mie considerazioni espresse ne “Il gioco capitalista degli Elohiym falsi e bugiardi”7 (una sezione del mio saggio “Critica dell’irrazionalismo occidentale”): uomini ingannevoli, sedicenti Dei/mediatori-di-Dei, ne asserviscono altri, ignoranti e indifesi. Io leggerei quelle tavolette sumeriche con il metro che ho applicato al “Brave New World” di Huxley (si legga la mia monografia intitolata “Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015)”8). Anche Huxley parla di eugenetica e di asservimento, ma si tratta di una distopia letteraria. Forse nei testi sumeri esaminati da Sitchin persiste l’idea dell’esistenza di due razze di esseri intelligenti: i padroni e i servi. E alcune religioni legittimano questa impostazione socioumana. Niente di strano che i popoli del Vicino Oriente Antico abbiano attinto, in modi diversi, a questo comune bacino ideologico (architettura dinamica) generando differenti, più o meno simili, simboli (architettura statica). Nei grovigli concettuali di opere sacre e mitologiche, impastati di propaganda (anche ingannevole) e di riflessioni sull’universo, occorre saper distinguere i vari livelli comunicativi. Se c’è un’informazione storica, essa non sempre è pulita, scevra d’incrostazioni, e non sempre è visibile e riconoscibile. Il profondo può nascondere notizie interessanti. Ad esempio nel “De brevitate vitae” lo stoico Seneca coglie la dicotomia marxiana “valore d’uso / valore di scambio”9. L’etica attivistica e razionalista del dovere promossa dallo Stoicismo contiene inoltre una radice semitica (Zenone di Cizio), la quale, dopo il matrimonio tra la Stoà e l’Ebraismo (generante il Cristianesimo), si evolverà – impazzita – nel volontarismo e nella predestinazione luterani (alla base del capitalismo moderno, come ben visto da Max Weber)10. Dopo Platone e Aristotele l’unità analitica della filosofia si è spezzata in epoca ellenistica. Lo Stoicismo e l’Epicureismo rappresentano una scissione (psichica) fra ragione (logos) e libido. Per questo motivo un logos nevrotico (a vocazione irrazionalistica) esploderà nel Cristianesimo e nella storia occidentale. La ratio maschilista arroccata, scollegata dalla libido, costituisce il movente al centro di vari gravi squilibri (personali e sociali) i quali l’Occidente ha vissuto nei secoli al suo interno.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note di critica (2017)”


2 Riguardo a tale tema suggerisco la lettura nella mia opera “Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016)” della parte intitolata “Teoria sull’origine aliena dell’umanità”:

3 Per approfondimenti si vedano nel saggio menzionato nella nota precedente le sezioni “Il gioco capitalista degli Elohiym falsi e bugiardi” e “Il parricidio marxiano di Locke figlio d’Abramo”:

4 In merito a ciò si veda in particolare nella mia monografia intitolata “Ermeneutica religiosa weiliana (2013)” la parte recante il titolo “Il Dio del Tanak non è solo”:
5 Per approfondire si veda il mio studio “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi” dentro la mia pubblicazione “Considerazioni letterarie (2014)”:

6 Nell’opera menzionata nella nota 3, la sezione dal titolo “Radici egizie”:

7 Vedi nota 2.


9 Ne ho parlato nel mio studio “Il severo monito di Seneca” nel mio saggio “Critica letteraria (2017)”:

10 Per approfondimenti invito a leggere altro in aggiunta ai testi citati nella nota 3:

venerdì 22 settembre 2017

“EQUALS” E L’ANIMA A UNA DIMENSIONE

di DANILO CARUSO

“Equals” è un film distopico del 2015, proiettato alla Mostra di Venezia, e diretto da Drake Doremus, il cui soggetto, elaborato da Nathan Parker, trae origine da un racconto del regista medesimo. In questa pellicola la società umana è organizzata dentro un apparato denominato “Collective”, il quale ha bandito ogni forma di emozione e di sentimento, spingendosi a un livello più elevato dello Stato zamjatiniano di “Noi”1. Infatti, mentre nel romanzo di Zamjatin è lecito un esercizio libero, controllato, desublimante (quindi repressivo, contenitivo de facto) della sessualità, in “Equals”, nei confronti di tale aspetto, siamo vicini all’agostinismo di “1984”2, il quale nel film viene a sua volta portato alle estreme conseguenze. Soppressa la possibilità di legami erotici naturali e autonomi, il rinnovo generazionale viene gestito attraverso il metodo della fecondazione ovulare artificiale applicata alle prescelte. La forma procreativa normale rappresenta una violazione dell’ordine. In simile contesto di concepimento (un passaggio paragonabile all’azione dello Spirito Santo), gli embrioni ricevono un’alterazione inibitoria della facoltà sentimentale (come se si volesse far nascere i bambini senza peccato in virtù di un rinnovato e allargato principio dell’“immacolata concezione”): la componente genetica maschile rinforzata, in termini simbolici junghiani, il maschile-logico, dovrebbe sopraffare la parte femminile, biologicamente passiva nella visione medica premoderna, e quindi ingabbiare il femminile-erotico destabilizzante. Questa macchia primordiale può ripresentarsi nell’esistenza degli individui del Collettivo nella veste di “switched-on syndrome (sindrome di deviazione)” la cui sigla è SOS, la quale fuori del contesto filmico rievoca il noto segnale d’aiuto, il cui significato (“save our souls”, salvate le nostre anime) però si riallaccia al mio quadro analitico. I soggetti malati vengono internati in un centro di recupero per il deficit emozionale neuropatico (DEN: “defective emotional neuropathy”): qua diffusa prassi di trattamento è l’induzione al suicidio. È singolare che il decorso di siffatta (pseudo)patologia, immaginabile quale un risveglio libidico dell’inconscio collettivo, abbia quattro stadi, quanti quelli del processo alchemico-junghiano. Le vicende dei protagonisti del film, Nia e Silas, ricordano molto quelle di Julia e Winston di Orwell e di I-330 e D-503 di Zamjatin. Si tratta di una sovrapposizione e di un incrocio di due coppie letterarie producente un risultato originale, nuovo e gradevole al fruitore. In “Equals” Silas si avvicina a un gruppo clandestino di malati di SOS, il che rappresenta qualcosa di simile all’introduzione presso i Mefi di D-503 in “Noi”. Esiste nel film una parallela zona, qui nota, fuori del Collective, dove risiedono esseri umani non inibiti, ritenuti pericolosi e il cui contatto non è un’ipotesi da prendere in considerazione per un cittadino esemplare. La “Penisola” filmica, benché non presentata in maniera nitida, offre tratti di somiglianza con la parte positiva della dicotomia zamjatiniana “interno della città (razionale distopico) / esterno, aperta natura (libero recupero della libido junghiana)”. Sopra una dinamica del genere il film illustra la partita dell’eros liberatore nel legame sentimentale fra Nia e Silas. Nel finale la trama, ancora una volta, indica una particolare tangenza zamjatiniana, quando Silas, al pari di D-503, si sottopone a una terapia inibitoria radicale: gli esiti nei due personaggi saranno diversi. D-503 guarirà del tutto (e I-330 sarà poi condannata a morte), Silas (fuggito assieme a Nia verso la Penisola) riuscirà, nonostante la cura, a mantenere vive le sue capacità emotive e sentimentali (naturam expellas furca, tamen usque recurret). In “Equals” una nevrotica agostiniana Civitas Dei, dove un antiutopico Logos pacificatore aveva preso il sopravvento, viene sconfitta3.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note di critica (2017)”

1 A questo romanzo, con cui il film di Doremus condivide – fra l’altro – il risalto dato all’esplorazione dello spazio, ho dedicato una monografia: “L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015)”.

2 A proposito di quest’altra distopia ho scritto un saggio: “Il Medioevo futuro di George Orwell (2015)”.

3 Può risultare utile, ai fini di un paragone e di un approfondimento della mia impostazione critica, leggere una mia analisi del film “Equilibrium (2002)” di Kurt Wimmer.



sabato 2 settembre 2017

DIOTIMA NON DEVE MORIRE

EROS E LA LIBIDO JUNGHIANA NEL “SIMPOSIO”

di DANILO CARUSO

Il busto dedicato
a Diotima presso
la University of
Western Australia
con sede a Perth
(ivi se ne trova
anche uno a Socrate).
Sono rimasto perplesso e contrariato dopo la lettura del saggio dell’ottimo professor Giovanni Reale dedicato al “Simposio” platonico (“Eros demone mediatore”, pubblicato nel ’97). Esporrò perciò le mie considerazioni di distacco dal punto di vista analitico di uno dei massimi studiosi italiani del pensiero filosofico antico. Comincerò categorizzando i motivi di dissenso che saranno approfonditi. Ho notato nella trattazione del Reale una mira a cristianizzare Platone. Il dubbio avanzatosi nella mia mente mi fa sospettare che, smussando le opere platoniche, egli voglia creare una sorta di weiliano insieme di intuizioni precristiane della Grecità. Il Cristianesimo nella sua gestazione e nella sua edificazione teologica ha preso in prestito mattoni concettuali nevralgici dal filosofo greco. La verità dei fatti mostra che l’Ebraismo alessandrino ha assorbito la filosofia stoica e platonica producendo una mediazione culturale alla base e nel DNA del Cristianesimo, e fatale per le sorti dell’Impero romano. Quindi l’ermeneutica del “Convito” condotta dall’eminente studioso da una rocca ideologica cattolica rivela, secondo me, i suoi difetti a chi viaggia su binari diversi. Il mio esame della suddetta monografia ha rilevato sfumature di pregiudizi: uno omofobico, uno misogino, uno sessuofobico. I quali rientrano alla perfezione tra le storiche inclinazioni negative della Chiesa. Il professor Reale ha sostenuto che Platone condannasse l’omosessualità in alcuni passi di vari dialoghi di lui. La mia impressione non è conforme a questo giudizio, il quale mi pare avvalersi di una superficiale generalizzazione dell’argomento a beneficio dell’omofobia giudeocristiana. Procederò ora parlando di questi brani platonici tirati in ballo. Oltre al “Simposio” si tratta del “Fedro” e delle “Leggi”, e da questi due partirò. In Fedro 250e-251a Platone afferma che la sessualità vissuta in modo animalesco, mettendosi a ingravidare le donne come effetto di una pratica edonistica, è una cosa non idonea all’altezza della natura umana, tant’è che ciò si palesa «παρὰ φύσιν». La traduzione di questa espressione con “contro natura” svia il lettore dal cogliere il suo preciso significato nel quadro platonico. Innanzitutto nel testo essa si riferisce a quanto la precede, e non a un ulteriore concetto di qualcosa che sarebbe “contro natura”: è facile per una mentalità post-cristiana cadere in un errore interpretativo costruitosi ad arte1. Vedremo ancor meglio la faccenda nel momento in cui affronterò i brani dalle “Leggi”. Per ora, e per quanto riguarda il Fedro, debbo temporaneamente concludere con il riferimento a 252a-b, dove Platone non condanna l’approccio omoerotico maschile. Qua egli ribadisce la sostanza del discorso di Pausania nel “Convito”. Esistono due generali manifestazioni erotiche: una uranica e una volgare. Platone, un’eccellenza del pensiero universale, ha colto la differenza fra la libido junghiana e quella freudiana. Mi ha stupito non poco osservare che nel testo del Reale non viene colta la dimensione di Eros quale libido junghiana (di cui la freudiana è momento parziale). Platone precorre nel “Simposio” aspetti della psicologia analitica di Jung: la dialettica dell’Io con una sua controparte psichica nel “processo di individuazione”. Il brano del “Fedro” testé citato indica una fase esteriore, estetica, fisiologico-sessuale, la quale rappresenta una tappa individuante presso cui il soggetto non deve arenarsi. Il motivo del rifiuto di Socrate, menzionato nel “Convito”, delle avances di Alcibiade trova una sua spiegazione nel fatto che quest’ultimo non era un compagno adeguato alla prosecuzione di quel cammino, in primis, ma non esclusivamente, spirituale; un cammino di cui Platone parla a proposito di unioni sotto il patrocinio di Eros. A mio modestissimo avviso il professor Reale ha mutilato la gamma erotica del “Simposio” a ermetico vantaggio della parte alta (la spirituale), sganciandosi da quella bassa (la fisiologica) dietro possibili, più o meno consci, motivi religiosi. Infatti egli a conclusione della sua trattazione presenta più un ideale sessuofobico cristiano piuttosto che la sostanza profonda dell’Eros platonico. Non vedo santi a quel banchetto descritto, ma uomini, e una donna, ragionanti sulla base della loro antropologia, che era quella di Platone, il quale ha cercato di porre la libido in funzione dei più nobili obiettivi (il politico e il morale). L’omosessualità praticata in ambiti intellettuali elevati per Platone non è un “peccato” (criterio a lui estraneo, come quello odierno di “contro natura” in tal caso). Egli predica la continenza (σωφροσύνη: saggezza che è moderazione), ossia l’ordine proveniente dal logos, cui si accompagna (in maniera conflittuale o meno) l’eros; il quale non va soppresso, ma integrato (individuazione junghiana). L’iniziale reazione socratica davanti all’adolescente Carmide (nell’omonimo dialogo platonico; si veda in dettaglio 155c-e) non è molto “spirituale”: il Reale trascura quest’episodio di erotico turbamento, non solo inerente alla normalità antropologica platonica, da parte di Socrate di fronte al “corpo” di un bel ragazzo. La prospettiva del “Convito” è omoerotica maschile, tutta particolare allo sguardo di un osservatore disomogeneo, e non rientrante in un puro canone junghiano. Tuttavia Platone non ha chiuso le finestre a Jung, anzi nella sua genialità ha prospettato tre modelli psicosomatici grazie al discorso di Aristofane: uno eterosessuale (che è quello androginico junghiano, nella coppia “apollineo/afrodisio”) e due omosessuali, sempre provenuti dai primordiali esseri umani poi da Zeus divisi, costituenti delle coppie omoerotiche (“apollineo/dionisiaco”, “ateneo/afrodisio”). L’antropologia del contesto sociale in cui visse Platone gli consentiva soltanto di celebrare nel “Simposio” il secondo modello. Però il grande filosofo non ha negato gli altri due: anzi ha apprezzato Saffo, e d’altro canto il contributo che le donne possono dare alla società (pur con tutti i condizionamenti di una mentalità maschilista dominante, la quale tuttavia non era assurda ed estrema come quella ebraica). Considerato che la linea elaborativa del pensiero platonico nel “Convito” si muove nel solco dell’accoppiata “apollineo/dionisiaco”, non ritengo che si possa spiritualizzare in senso cristiano il laboratorio di idee ivi dipinto. Platone non condanna il piacere sessuale in sé in nessuna circostanza omoerotica, condanna il suo esercizio fra soggetti prossimi alla realtà animale e non vicini all’essere umano vero e proprio, il quale è il filosofo, vale a dire colui che indirizza la libido (l’eros) alle cose più elevate e nobili (la morale, la politica, la conoscenza, l’arte). Quanto ho detto sin adesso emerge con nitidezza da un brano delle “Leggi”, 636c. In esso Platone afferma che le coppie omosessuali (maschile e femminile) sono «παρὰ φύσιν» e che il piacere del congresso carnale eterosessuale, finalizzato alla procreazione, è «κατὰ φύσιν». Che cosa vuol indicare, esprimendosi nei diversi casi, con «παρὰ φύσιν» e «κατὰ φύσιν»? Innanzitutto non esiste opposizione concettuale repulsiva (“contro natura / secondo natura”). Il senso corretto, a mio modo di vedere, è altro rispetto a quest’ipotesi appena respinta. Una conformità biologica viene denotata da «κατὰ φύσιν», l’adeguamento verso un ordine o una legge di Natura: appunto la coppia uomo/donna possiede quella funzione biologica procreativa «φύσει [per natura]». La φύσις non contiene questa possibilità per gli omosessuali. Il legame di questi si configura «παρὰ φύσιν» nel senso di essere metabiologico, cioè il suo valore va al di là della sfera biologica procreativa. Ed è quanto Platone sostiene nel “Simposio”. L’isolata libido dell’actus copulandi procreativo agli occhi del filosofo greco rimane perlopiù a un grado dispersivo e impantanante freudiano (si veda Fedro 250e-251a). Un bestiale edonismo eterosessuale «παρὰ φύσιν», andato oltre il suo fine generativo «κατὰ φύσιν» banalizzando (e si badi a non confondere Eros con la ἡδονή), e l’eros volgare (freudiano, chiarito da Pausania), hanno prodotto di conseguenza l’apologia dell’omoerotismo intellettuale mirante a un piacere metasessuale: tuttavia non è da dimenticare che si parte comunque da un gradino in cui il coinvolgimento sensuale mette in moto l’elevazione (la vicenda di Fedro 252a). La scala erotica platonica del “Convito” parte dal sensibile di connotazione maschile, non si svolge un cristiano itinerarium mentis in Deum, come mi sembra il professor Reale voglia far apparire. La mia sensazione è che tutti i personaggi di questo dialogo platonico siano gradini, e credo che, quando si è arrivati in cima alla scala, non si possa demolire il tratto più basso perché dà “evangelico scandalo”. Alla fine del brano su citato 636c si afferma che l’omosessualità ha avuto causa e origine in un piacere mancante di autocontrollo: ora, per Platone il problema non è la ἡδονή (la quale è in comune con gli eterosessuali), bensì l’incontinenza, e a tutti i livelli: quello eterosessuale con eccesso di prolificità biologica; e quello omosessuale, allorquando, alla stregua dello sgradito Alcibiade, non si prosegue nel percorso dell’individuazione alla volta del guadagno interiore dell’ordine, ma si rimane attaccati a un consumo di energia libidica di estrazione freudiana. Platone vorrebbe che tutti cogliessero la valenza junghiana del suo Eros, il quale porta lontano, e non demolisce i ponti alle sue spalle. Ricordiamoci, per inciso, che Jung ebbe delle amanti tra le sue pazienti: ciò non è casuale, è qualcosa di socratico-platonico seguente la coppia erotica “apollineo/afrodisio”. Platone sottolinea le cose appena dette, all’inizio di 636e, dove, qui davvero, adotta un concetto equivalente al post-cristiano “contro natura” nell’espressione «ἐκτὸς τῶν καιρῶν»: al di là delle (fuori delle, lontano dalle) giuste misure (opportunità). Chi «senza conoscenza [ἀνεπιστημόνως: privo di sapere, ignorante]» e senza καιρός gode della ἡδονή non sceglie de facto una condizione di vita piacevole: la tirannia del lato umano animale non è garanzia di felicità. La smodatezza e l’eccesso oltre il confine del καιρός rappresentano per Platone il vero sostanziale problema (Jeremy Bentham aveva colto questo nocciolo nel paragrafo nono della sua postuma pubblicazione “Offences against one’s self”). In tal modo possiamo comprendere ciò che il filosofo greco afferma, ancora nelle “Leggi”, in 836a-c. Sorge una questione legata all’omosessualità nella misura in cui la smodatezza turba il regolare andamento della vita sociale e l’ordine costituito, non in quanto problema morale in assoluto. Platone condanna l’Eros volgare della dicotomia di Pausania, non quello uranico. Infatti puntualizza che il possibile ricordare la conformità sessuale biologica («τὴν τῶν θηρίων φύσιν») rappresenta un aspetto meramente formale nei confronti dell’omosessualità; la quale è «μὴ φύσει», idest un quid non appartenente all’ordine biologico, bensì a quello spirituale dell’individuo. I tre possibili accoppiamenti del discorso aristofanesco del “Simposio” lo dimostrano, poiché assumono un valore psichico in prospettiva junghiana. A proposito di tale ottica è utile aggiungere che Platone nel “Fedro”, in 252d-253c, parli di adeguamento archetipico: chi è mosso da Eros, segue un modello simbolico prenatale. Platone argomenta di Dei, al cui seguito le anime, in attesa del loro ritorno nel mondo fenomenico, starebbero. Il soggetto su cui l’amante riversa la sua attenzione erotica perfeziona quell’inclinazione archetipica e la sprona verso l’eccellenza e alla scoperta della sua radice metafisica. Tutti avrebbero in tal guisa un archetipo, fra i differenti, da seguire: Platone ha altresì anticipato James Hillman e la sua psicologia, di matrice junghiana, archetipica. Hillman ha rintracciato nel solco della tradizione neoplatonica nozioni in nuce della riflessione di Jung (inconscio collettivo, archetipi, anima, complesso dell’Io, immaginazione attiva, sincronicità), e ha indicato tre precorritori: Plotino, Marsilio Ficino, Giambatista Vico. Gli smodati che preoccupano Platone costituiscono un problema psicologico e pure politico nel momento in cui la dimensione si accresce. L’archetipo da seguire e l’accoppiata aristofanesca cui adeguarsi sarebbero nella visione platonica stabiliti a priori: i mali per la società, cui Platone accenna, sorgono dal discostarsi da tale preordinamento e/o dalla smodatezza, non da una moralizzazione cristiana delle problematiche. È come se Platone stesse dicendo: «Va’ con ordine (logos) dove ti conduce il cuore (eros)». Questo è il significato dell’allegoria della biga del “Fedro”: si tratta di un junghiano processo di individuazione visto dalla parte maschile. La ragione (l’apollineo) deve trovare il suo equilibrio con la sfera libidica (composta di sentimenti, emozioni e passioni). In “Leggi” 837c-d Platone tramite il concetto di ἁγνός chiarisce e ribadisce il nucleo del suo pensiero. Non usa simile aggettivo direttamente, ma altri termini con la sua radice semantica (lo adopera invece in Fedro 254b): usare l’aggettivo nella spiegazione offre l’opportunità di afferrare meglio quanto contenuto nelle parole platoniche. Chi traduce i due vocaboli utilizzati da Platone (e l’aggettivo stesso) agganciandoli alla post-cristiana idea di “castità” porta fuori strada, secondo me, il lettore, al pari della circostanza di “contro natura”. Se parliamo di castità appiccichiamo sant’Agostino alle “Leggi”. Platone appartiene a un altro universo culturale. L’aggettivo ἁγνός si riferisce a persone e cose: la seconda opzione fa per noi in quanto l’oggetto platonico di riferimento è il corpo, e più precisamente quello della persona su cui si catalizza l’eros (la libido). Suddetto aggettivo indica la qualifica del corpo quale luogo-dell’anima: consacrato, venerato. Il corpo è il tempio-dell’anima: il primo a scoprirlo è stato Platone; il Cristianesimo ha copiato, radicalizzato e distorto un’idea di portata più ampia. La religiosità greca antica non era sessuofobica, esisteva una non stupefacente ierodulia sessuale (dato che la sessualità femminile permette stati intuitivi metafenomenici). Pertanto la purezza religiosa che Platone assegna all’amante nei confronti della persona amata è sì qualcosa di nobile, paragonabile all’attributo di un atto liturgico sacro, però non è cristiano obbligo di castità sessuale. La liturgia erotica platonica deve conformarsi all’ascendenza archetipica, all’ascendenza psicosomatica aristofanesca (“apollineo/dionisiaco”, “apollineo/afrodisio”, “ateneo/afrodisio”), non andare «ἐκτὸς τῶν καιρῶν». In ambito eterosessuale, l’amore cortese medievale rappresenta di essa parziale riproposizione, per rendere l’idea dell’amore platonico. Nel brano dalle “Leggi” esaminato, Platone mette a fianco dell’amante (ἐραστής) un ἐρώμενος (amato): egli non sta discutendo né di monaci né di smodatezza. I termini ἐραστής/ἐραστή, ἐρώμενος/ἑρωμένη, non specifici della filosofia platonica, indicano a tutti gli effetti i componenti di una coppia (omo o etero) fondata su un legame di natura erotico-sessuale: nel nostro caso un amante più maturo si prendeva cura di un amato che attraversava il suo periodo adolescenziale, preparandolo ad assumere il suo ruolo sociale da adulto. Platone presenta un modello pedagogico: la pederastia. Un modello cui l’Alcibiade del “Convito” non si è conformato alla perfezione. Costui è rimasto “dionisiaco”, disordinato (si veda Fedro 254b): perciò Socrate lo ha rifiutato. Questo avrebbe sprecato il suo “oro” in cambio di “volgare bronzo”. Se Alcibiade, la rovina di Atene, si fosse elevato allo stadio aureo, Socrate non l’avrebbe respinto. Il primo non aveva compreso che il suo compito era quello di diventare un nuovo Socrate davanti agli altri. Il “dionisiaco” in maniera enantiodromica, nello schema pedagogico platonico, dovrebbe rovesciarsi in “apollineo” in funzione di una successiva enantiodromia a parti invertite. Il fallimento di Alcibiade costituisce la lezione negativa del “Simposio”: il disordine interiore non è un bene (pensiamo al V canto dell’Inferno dantesco). L’ideale è: il logos che integra l’eros, ossia l’individuazione junghiana. Siamo dunque nelle condizioni di capire che la difesa della famiglia biologica attuata da Platone nelle “Leggi” (si veda in particolare 838e-839a) non si avvale di una cornice motivazionale morale (tanto meno filocristiana). Platone è preoccupato dalla questione demografica, dal pensiero che l’eros volgare di Pausania dilaghi distopicamente e che il genere umano si possa estinguere per l’assenza di unioni κατὰ φύσιν: se bisognava tener separati i maschi, è evidente che al cospetto di Platone il suo auspicio formativo del “Convito” non avesse avuto pratica nella realtà sociale, e che al contrario l’exemplum di Alcibiade fosse assorto a distopia al punto tale di doversi cautelare in tutti i modi. A mali sociali estremi, estremi rimedi pragmatici: esaltazione della famiglia biologica, condanna esplicita dell’eros non uranico. Però la smodatezza la quale ha comportato questa presa di posizione platonica non cancella le più genuine visioni filosofiche, antropologiche e politiche di Platone. Il discorso di Aristofane aveva prospettato una solida base a tutti gli orientamenti sessuali (Simposio 191e) e idealizzato il modello “apollineo/dionisiaco” (191a-192b) in un contesto storico generante altre considerazioni platoniche. È da notare che tuttavia il Platone delle “Leggi” non è un accidente filosofico. In Simposio 192b il filosofo ha perfetta consapevolezza che la conformazione alla coppia “apollineo/dionisiaco non è «φύσει» e che ciò allontana dal mettere in atto la procreazione eterosessuale. Egli qua puntualizza che per gli omosessuali maschi l’avere figli scaturiva da una costrizione della legge. Ecco spiegato lo spirito delle “Leggi”: il peso dei νόμοι (usi, costumi) si era alleggerito nella coscienza civica, pertanto bisognava dare un giro di vite. Platone nel suo ultimo dialogo prevede che gli uomini prendano moglie tra 25 e 35 anni, contempla altresì una tassa sul celibato con gravi sanzioni progressive per i recidivi. In breve, non ha fatto altro che convalidare, qui nel dettaglio, 191a-192b del “Convito”, e in generale prospettare una struttura sociale adeguata all’attuazione della scalata erotica, la quale è il fine di questo scritto. La “Repubblica” è soltanto posticipata nei suoi obiettivi, sebbene opera anteriore alle “Leggi”. I programmi di tali due opere platoniche sarebbero da intendersi pragmaticamente in relazione a due stadi evolutivi storici consecutivi (similmente – nella forma – all’escatologia marxista, dove alla fase socialista, con la dittatura del proletariato, segue la fase comunista, con l’anarchia naturale). In entrambi questi dialoghi di Platone si aggira lo spettro del “Simposio”. Giunto a questo punto non mi pare che si possa sostenere l’immagine di un Platone omofobico e sessuofobico, teorico di un casto amore spirituale, il quale in fin dei conti alimenta l’erronea idea divulgatasi dell’eros platonico: non si tratta solo di sguardi; il tiaso saffico, ad esempio, rientra nella casistica di istituti dove l’eros platonico veniva celebrato, e possiamo dire in “maniera religiosa”, come Platone richiedeva a posteriori (Saffo non gestiva un collegio di suore, bensì un sistema associativo il quale, in versione maschile, Platone esemplifica e idealizza nell’iter del “Convito”). Penso di aver motivato a sufficienza la mia diversità di vedute rispetto all’illustre professor Reale per ciò che concerne la presunta omofobia platonica, e in parte per ciò che riguarda l’ipotetica sessuofobia nel “Simposio”. Proseguirò da quest’ultimo punto, prendendo in esame un’operazione ermeneutica del Reale condotta nel suo saggio menzionato all’inizio della mia modesta riflessione. In alcuni capitoli finali della monografia l’eccellente docente dà l’impressione di volersi sbarazzare di Diotima. Verrebbe facile pensare a misoginia cristiana di riflesso, però la questione è profonda, più di quanto un lettore ingenuo possa notare. Da Fedro ad Agatone e Socrate, Giovanni Reale ha definito i personaggi del “Convito” maschere di una rappresentazione di Platone. Fin qua niente di strano, anche se io li interpreto più come tappe di una fenomenologia erotica. Allorché entra in scena la sacerdotessa di Mantinea, il metodo ermeneutico delle maschere del professor Reale si complica e si aggroviglia, per me, in modo confusionario e indebito. Diotima, latrice di una “rivelazione” definitiva sulla natura di Eros, diventerebbe maschera di una maschera, di Socrate, e costui si convertirebbe di conseguenza in maschera di Agatone. Basterebbe pensare alla repulsione platonica nei confronti delle imitazioni-delle-imitazioni per comprendere che un gioco narrativo siffatto, di secondo grado non può essere attribuito con facilità alle intenzioni di Platone. Ma in aggiunta a questa semplice osservazione, altre sostanziali invalidano la teoria interpretativa delle doppie maschere nel segmento narrativo coinvolgente Socrate e Diotima. Questa stranissima, parziale, circoscritta particolarità di trattamento analitico mostra vistose crepe ai miei occhi. La prima è ricollegabile a una visione misogina cattolica su accennata: da quel che noto il Reale paleserebbe un’avversione teologica a una “rivelazione” di chiusura sul tema affidata a una donna. Egli non ha per niente chiarito il perché Platone metta in campo una sacerdotessa e non un sacerdote, ha aggirato un concetto (platonico e junghiano) che tra poco apprezzeremo meglio. Comprendo che per un comune cattolico la Rivelazione sia fatta da uomini e da Gesù Cristo in primis: quindi ogni individuo che non ha forma naturale di “vir”, secondo costui, non potrebbe assumere nel Cristianesimo dignità sacerdotale o profetica (la Bibbia a tal riguardo non offre alternativa: dalla Madonna alle sante poi si è sviluppata una teologia di serie B, sessuofobica e misogina, durata a lungo). Sarebbe intollerabile dunque che una donna, in quanto tale e non desessualizzata, sia il medium della verità suprema su Eros. Tuttavia questo non può dar adito, con tutto il massimo rispetto nei confronti dell’ottimo studioso, a un gioco delle tre carte (Agatone, Socrate, Diotima) per togliersi dall’imbarazzo e dall’impaccio di una donna che istruisce un uomo, e per far scomparire la sacerdotessa di Mantinea. I teologi cristiani rabbrividirebbero a leggere della Vergine Maria che insegna qualcosa di teologico a Gesù. Volendo cristianizzare Platone, l’effetto di Diotima con Socrate è analogo nei riguardi di un critico di formazione cattolica. Perciò mi sono prefisso di salvare l’autenticità della sacerdotessa di Mantinea dal suo simbolico femminicidio mediante una maschera di secondo grado2. Se Platone nel “Simposio” pone una donna al culmine della conoscenza erotica, non è lecito sostenere che quella “rivelazione” sia farina del sacco socratico: ha parlato Diotima; non è possibile peccare di paranoia nei confronti del filosofo greco, inventare sue contorte intenzioni. L’ermeneutica del Reale della doppia maschera mi pare fortemente pregiudiziale, e il motivo è stato illustrato. Platone non è un cristiano, ha sì dato molto al Cristianesimo; però cristianizzare il filosofo non serve a rendere originale la religione che si è servita di lui, trasformandolo in un precursore filosofico della vera religione rivelata. Il cap. V della sezione terza del secondo volume della “Storia della filosofia antica” di Giovanni Reale (pagg. 270-271) intitolato “Platone profeta?”, invece, sostiene quest’idea. La storia dimostra l’originalità di Platone (e dello stoicismo), e la costruzione artificiale di una nuova religione3. La misoginia cattolica non gradisce il ruolo di Diotima, il quale nel dialogo platonico è puntuale e nevralgico. Esprimendoci in quei termini junghiani che si confanno a Platone, non possiamo non riconoscere, nel filosofo antico, la presenza di quei concetti simbolici, psichici (meglio definiti da Jung), di maschile e femminile a proposito di logos ed eros. Nessun uomo, in quanto tale biologicamente, potrà impersonare una purissima incontaminata razionalità (quasi fosse un macrobo lewisiano), e viceversa una donna non è solo caratterizzata da sentimenti, emozioni e passioni. Ogni essere umano partecipa di questi psichici “maschile” e “femminile. Platone lo ha capito: il “dionisiaco” è “femminile-mascherato”. Nell’ambito del dibattito culturale intitolato “Pornosophia”, in occasione della manifestazione “Popsophia” a Civitanova Alta, il 14 luglio 2012, Valentina Nappi ha dichiarato di richiamarsi nella sua attività al dionisiaco nietzschiano e ha accennato a una specie di  predestinazione (archetipica) personale. Soltanto la figura simbolica di una donna può esporre la natura di Eros. Platone lo sa, e Socrate (l’apollineo, il razionalista) può unicamente ascoltare: uno “shema” al femminile. Il coro delle donne corinzie della “Medea” di Euripide (625-635) ammonisce che mentre i legami amorosi («ἔρωτες») straripanti fuori della moderazione sono forieri di effetti negativi, d’altra parte i rapporti opposti sono più amabili e desiderabili, e ancora auspica la vicinanza paterna della σωφροσύνη («στέργοι δέ με σωφροσύνα»), ritenuta il dono divino più bello. Diotima è autentica perché è il simbolo reale, nella forma fisiologica, dell’eros (libido). L’«esteso mare aperto del bello (Convito 210d)» rievoca l’immagine delle “acque primordiali” (costituenti un principio femminile). Nella matrice linguistica indoeuropea esiste un verbo (“ran”) avente in comune con “eros” la radice (r/er), e che vuol dire “dirigersi-verso/la-forza-vivificante-delle-acque-universali”, e quindi “godere” e “provare gioia”. Per la precisione, “eros” e tutti i vocaboli affini sono un derivato  dell’indoeuropeo “ram” (=appartarsi; su cui scende il concetto di “un amore esclusivo”). Platone ci fa comprendere come “il bello” sia un prodotto della sintesi tra “maschile-logico” e “femminile-erotico”. La bellezza rappresenta un equilibrato sinolo di materia libidica junghiana e di forma ordinatrice razionale: la sua gamma spazia dal sensibile al metasensibile. La bellezza è l’abito della verità: nessun poeta, forse, ha colto meglio di John Keats, nei suoi versi, quest’intuizione platonica (“Ode su un’urna greca”, vv. 49-50). Nel “Simposio” poi la sacerdotessa di Mantinea esce di scena giacché il dialogo esalta l’omosessualità maschile; ma la coppia aristofanesca pertinente a questa (“apollineo/dionisiaco”) ripropone sempre il dualismo psichico junghiano “maschile/femminile”. Platone, come visto, contrariamente a Jung prevedeva più di due schemi di possibilità individuanti del soggetto: “apollineo/dionisiaco”, “apollineo/afrodisio”, “ateneo/afrodisio”. Si tratta di sei possibilità a differenza delle due junghiane (“Io maschile / anima”, “Io femminile/ animus”), le quali anch’esse però in fin dei conti si riconoscono e si esemplificano nell’immagine del sommo archetipo androginico. Quest’ultimo rappresenta quella medaglia dalla doppia faccia di Verità e Bellezza, di Logos ed Eros, che Platone e Keats pongono in fondo quale meta e premio del viaggio dell’anima. Sicché l’educazione al e dal bello sarebbe il miglior antidoto ai mali umani: il weiliano diritto alla bellezza e l’intellettualismo etico socratico non potrebbero avere migliore prospettiva di quella platonica. Platone è consapevole della centralità del problema pedagogico: una corretta arte (specchio del metempirico) e la conoscenza allontanano dal disordine, e aiutano a edificare una società giusta. Guerre, violenze e odi potrebbero essere scacciati dal potere del bello e dalla catarsi della coscienza storica, coronati da una vocazione alla filosofia. L’impegno filosofico e politico platonico testimonia questo pensiero utopico. La lezione del “Convito” si è manifestata di natura junghiana in vari aspetti. Il dialogo ha usato simbologie alchemiche ante litteram: l’oro di Socrate e il bronzo di Alcibiade. L’ottica finale è alchemica, poiché auspica una sizigia fra ratio e libido, lungo una strada, quanto prima, lastricata di equilibrio (σωφροσύνη). La materia-eros allorché sarà inquadrata nella forma-logos consentirà alla ragione di cogliere tutta la gamma del bello, la cui sezione più nobile, uranica, è un possesso specifico rivolto all’umanità: gli animali non hanno produzioni intellettuali, artistiche o scientifiche, né paralleli processi fruitivi. La forma suddetta, in senso assoluto, costituisce il principio determinante platonico; la materia, ancora nella stessa linea generalizzante, costituisce il determinato. Dalla loro interazione sintetica scaturisce il cosmo metafisico delle idee παρὰ φύσιν, e quindi tramite un’azione demiurgica il mondo fenomenico κατὰ φύσιν. L’eros platonico universale, l’esteso-mare-del-bello, nello sviluppo della filosofia, si ripresenterà nella voluntas schopenhaueriana, e nella libido junghiana (le idee dell’iperuranio e gli archetipi dell’inconscio collettivo sono determinazioni universali: logiche le prime, libidiche le seconde). Non è fuor di luogo adesso rammentare che nella psicologia analitica di Jung le funzioni soggettive logica e sentimentale sono facoltà di un asse razionale: il che allinea alla visione metafisica platonica dove la ragione, come nel sistema junghiano, è una capacità in teoria dominante. Alle funzioni junghiane razionali παρὰ φύσιν si contrappongono quelle dell’asse dell’irrazionalità: l’intuizione e la percezione. Queste sono κατὰ φύσιν, cioè legate al mondo fenomenico: una concerne il riceverne sensazioni; l’altra riguarda la possibilità del soggetto di un contatto metafisico o di una conoscenza superiore non mediati dalla razionalità, potenziali azioni attuantisi dall’interno del fenomenico verso il suo esterno. La ierodulia sessuale rientrava nella categoria della funzione intuitiva: in parole junghiane, operavano ierodule intuitive sentimentali (la reazione misogina del monoteismo occidentale, di stampo giudaicocristiano, produrrà invece l’antitetica figura della “strega” da perseguitare). Per Platone il destino del microcosmo umano è quello di elevarsi alla nobiltà dell’anima (termine nell’accezione platonica). Chi non ha la forza di farlo rimane zavorrato allo stadio più basso della sua sfera biologica e distrugge la sua natura intima. Questo il “messaggio” del “Simposio”: un “messaggio” di amore e concordia universali. Alla fine dei miei due gruppi di ragionamento, a sostegno e a spiegazione delle considerazioni a carico dell’opera citata dell’eminente professor Giovanni Reale, voglio aggiungere due corollari. Il primo inerisce alla figura della flautista nel “Convito”. La discussione “razionale” su Eros è stata sottesa dalla sua assenza: l’allontanamento di una in apertura e il ritorno di un’altra, all’ultimo, assieme ad Alcibiade. Tale dettaglio non mi sembra casuale. Perché compaiono altre due donne in questo dialogo platonico? La risposta è quella di sopra: sono simbolo dell’eros. Platone vuol dire che il dibattito precedente l’ingresso di Alcibiade e della suonatrice si è svolto sotto l’egida dell’obiettività razionale. Il che non deve essere tradotto in un discorso maschilista, come già chiarito, giacché compare all’interno della trattazione Diotima. Il filosofo greco ha compiuto un’analisi pure psicoanalitica, e a indicare che la libido è transbiologica mette accanto ad Alcibiade la seconda suonatrice. Ella rappresenta al pari della prima, l’eros sensuale, il quale è momento della scalata erotica, però non presente in atto in quella riflessione razionale su Eros. Ho l’opportunità di corroborare meglio tale corollario ricordando che l’immagine del “suonare-il-piffero” per un Greco antico poteva assumere un valore figurato (mediato da una metafora conducente ad αὐλός), il cui significato traslato oggigiorno è sopravvissuto nella lingua inglese nel vocabolo “blowjob”. Se Platone inserisce l’auletride in quel banchetto dedicato a un esame di Eros, lo fa per dire che, quantunque la sensualità e la sessualità agita stiano nella prima metà della scala erotica, questa prosegue, senza che tuttavia si debba demolirne il primo tratto. Spaziare sulla gamma erotica, in libertà con ordine, è l’optimum platonico. La smodatezza è il problema: i piaceri sessuali sono più brevi di quelli intellettuali, tuttavia non sono incompatibili o rivali nel soggetto equilibrato. Lo smodato non coglierà la bellezza non immediata e rimarrà inferiore nei confronti del filosofo, l’unico a realizzare la vera natura umana nel suo essere un ricercatore motivato dal bello negli oggetti della sua attenzione erotica (libido junghiana). Nel secondo corollario, brevemente, segnalerò una mia idea sull’origine dell’omosessualità, illustrata in un mio precedente lavoro4. In questa sede mi limiterò ricordando che considero l’indirizzo personale sessuale non conforme alla propria forma biologica non una malattia né un’anomalia, ma motivato dall’impronta fisiologica, sull’attuale Io, di un’esistenza precedente (condivido l’idea della metempsicosi). L’omoerotismo, pertanto, a mio avviso, è una dimostrazione dell’esistenza sostanziale dell’anima: Platone non afferma esplicitamente un concetto del genere, però, e in altra maniera, lo sottintende, come si è potuto osservare.


NOTE


Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note di critica (2017)”
http://www.academia.edu/35449885/Note_di_critica

1 Mi sono occupato di analisi letteraria biblica e di traduzioni distorte, e so bene che una voltura figlia di una violenza sul testo può far dire cose in esso non contenute. Invito a leggere dei miei testi: la monografia “Ermeneutica religiosa weiliana (2013)” e, in particolare attinenza coi temi qui esaminati, l’analisi intitolata “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi” contenuta nella mia opera “Considerazioni letterarie (2014)”.

2 Diotima subirebbe una sorte accostabile a quella di Mabel Brand, analizzata nel mio saggio “L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017)”.

3 Per iniziare un approfondimento rammento, in aggiunta a quelli della nota 1, altri miei studi all’interno dei miei saggi “Considerazioni critiche (2014)” e “Note di studio (2016)”.

4 Si veda la nota 10 della mia opera intitolata “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis (2017)”.