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sabato 10 marzo 2018

UNA PLATHIANA E POETICO-JUNGHIANA SEDUTA SPIRITICA

di DANILO CARUSO

Il testo seguente è un estratto del mio secondo saggio di critica letteraria plathiana (“Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”).
Nelle mie due opere di analisi ho assunto una prassi interpretativa junghiana. Qui chiarisco meglio che nell’indicare il complesso dell’Io, a seconda dei casi, ho adottato il termine “anima” o “animus”: e parlato, dunque in generale di una dialettica “anima/animus” nell’ambito della psiche individuale, da intendersi nel senso di “complesso dell’Io / controparte psichica sessuale”. Mi sono avvalso del potere critico di introdurre uno schema analitico, il quale non vorrei venisse frainteso: Jung coi termini “anima” e “animus” indica le sole controparti. Io ho generalizzato l’uso dei termini in una forma speculare e dialettica, ma si tratta di una variazione semantica e retorica ad hoc. Fuori di tale dettaglio, dove il binomio “anima/animus” si polarizza (a seconda del sesso del soggetto), ho mantenuto inalterata la terminologia usata da Carl Gustav Jung. In effetti, però, ciascun soggetto femminile o maschile nell’altrui considerazione può diventare prolungamento di “anima” e “animus” stricto sensu junghiano: e ciò rappresenta quello che ho inteso significare nel sistema delle relazioni umane coinvolte.
Il “Dialogue over ouija board” del ’57 è uno dei più bei componimenti plathiani, esso sta alla Plath come “La ginestra” a Leopardi o il carme “Dei sepolcri” a Foscolo. Va letto alla maniera platonica allo scopo di scoprire il significato che si cela dietro le sue figurate parole. E dunque saremo in grado di cogliere la plathiana dialettica “anima/animus” al di là delle interazioni tra le maschere protagoniste.
Sibyl rappresenta l’anima (junghiana) della poetessa, Leroy e Pan sono quelle forme di animus (junghiano) che Sylvia ha prima individuato nel padre, e poi in Ted Hughes (la figura del marito che avrebbe dovuto scacciare la prima, incombente sul cielo esistenziale della scrittrice in modo sinistro e concorrente rispetto alla Grande madre negativa, la quale in questo dialogo rimane fuori, tagliata dalla preponderanza di queste due forme di animus). L’insicurezza iniziale di Sibyl, che Leroy cerca di disinnescare, è l’espressione di un processo di individuazione junghiano ancora aperto e con i suoi problemi. Sylvia Plath rivela anche il suo scetticismo sulla durata dell’amore con Ted. Quando ai vv. 1-3 della strofa 9 dice: «immagino che quando siamo / fuori di esso [amore; n.d.r.] ci sarà tempo e abbondanza per noi / di corteggiare il rimorso. O qualcun altro.», vede già qualcosa di Hughes che lei vuol rimuovere pro bono – pro tempore – pacis animae.
Molto profonda, molto espressiva l’autrice ai successivi vv. 5-6: «Io considero / meno temibile il mondo dell’aldilà che il nostro». E di una simile idea ho già parlato nelle mie analisi. Leroy, alter ego, nella realtà sub specie di Ted (pseudopositivo animus), del complesso paterno (tendente a identificarsi radicalmente, in una prima fase di vita della Plath, col termine per lei polare dell’animus) cerca di rassicurarla in modo ambiguo inducendola a credere nell’esistenza di un «inferno» oltremondano come una delle dimensioni di provenienza di Pan (il complesso paterno vero e proprio).
Non c’è letterale evocazione di uno spirito nel “Dialogue…”, c’è sottile trama psicoanalitica: si sta discutendo di dinamiche psicologiche, una soggettiva (quella della poetessa) e una intersoggettiva (o possiamo anche definirla collettiva, dove l’inconscio minaccia l’io che duella con l’“ombra junghiana”, riproponentesi con l’abito infernale). L’interrogare Pan sulla vita ultraterrena e sulla sorte del genitore ha per la scrittrice di Boston pure un significato metafisico che tocca il dialogo in più punti. Si veda, oltre al chiedere sul destino dell’anima, la detta miscredenza di un inferno metasensibile. Si combina in questi casi una schietta materia psicologica con temi filosofici, il che non è contraddittorio o d’intralcio in una costruzione, e nella sua lettura, junghiana.
Allorché nella strofa 20 al v. 6 la Plath definisce Pan «psychic bastard» (si veda il riutilizzo del secondo termine in “Daddy”) mostra con chiarezza il fatto che sta parlando della sua relazione “anima/animus” in rapporto al complesso paterno, cui aggiunge l’indicazione di una (pseudo)sizigia alchemico-junghiana denotata dal parlare di «nozze (wedding)» nel verso successivo. In queste strofe 20 e 21 viene esternato il disappunto plathiano sul frutto di questa “coniunctio”, la quale sovrappone nel processo di individuazione della scrittrice il nuovo animus hughesiano sul precedente a impronta del complesso paterno. Questo però non è stato rimpiazzato in simile contesto del tutto poiché il nuovo animus non è in toto positivo, a causa di difetti di Ted e perché costui ha natura ambigua nell’essere un sostituto paterno che non riesce a portare un’originalità definitivamente risanatrice (questa coabitazione non tanto facile è evidente tra le strofe 26 e 27, e nella 38). Questi fattori insani sono tematizzati nel “Dialogue…”, ma come già detto subito dopo sotterrati a difesa di un momentaneo equilibrio che lo stesso Hughes poi spingerà con la sua pessima condotta in altre direzioni. A posteriori Leroy appare un ipocrita. Un’altra cosa che si nota in questa opera plathiana è l’attingere immagini dalla tradizione ebraica (strofe 23, 25 v. 3, 29 v. 6).
Non si rivela curiosa, anzi tutt’altro, l’attribuzione, nella strofa 24 di un fattore di razionalità a Leroy giacché la componente del logos corrisponderebbe al lato psichico soggettivo dell’animus: è Sylvia in questa tensione a mostrarsi più razionalizzante della sua controparte narrativa, la cui irrazionalità è più ipocrisia.
I primi tre versi della strofa 31 ricordano il fenomenismo di Prospero da “The tempest”1. La Plath fa dire a Leroy di Pan, l’“animus/complesso paterno”, paragonato a un vampiro alla fine della strofa 37, all’inizio, una verità obiettiva (terapeutica): «è buono / a sondare sillabe che noi non abbiamo ancora / portato alla luce in noi stessi». In parole povere costui è un termine di sprone psicologico.
Le strofe 41 e 42 sono centrali nell’evoluzione di tali dinamiche. Viene a galla una disarmonia triangolare “Sylvia / il padre / Ted”, a cui quest’ultimo vorrebbe replicare candidandosi come fattore di una albedo alchemico-junghiana prontamente da lei smentita, la quale vorrebbe smarcarsi dal complesso paterno. Un circolo vizioso questo confronto delle due forme di animus “Ted / il padre”, al momento, in Sylvia Plath: il primo ha bisogno del secondo per offrirsi come alter ego, mentre il secondo ha bisogno del primo per reincarnarsi, e tutti e due sono legati da vicendevole rapporto di appoggio con la poetessa. Ma lei vuol voltare pagina, chiudere con simili meccanismi che le generano disagio, perciò nella strofa 43 rompe il bicchiere, figurato medium paterno diretto: è questo il significato del sogno ricordato da ella poco dopo.
La percezione plathiana delle macerie di una nigredo è contenuta nella strofa 45, dove altresì lo spettro dell’ombra junghiana è in maniera inequivocabile riportato («shadow»). La strofa 46 rappresenta un punto di vista analitico hughesiano: egli stesso (Leroy) rimane turbato dalla sua rivalità coll’analogo animus paterno plathiano, sino al punto di cogliere lo smarrimento di Sylvia. La strofa 47 parla del processo di individuazione della Plath: «l’immagine di te [the image of you; n.d.r.]» è l’animus che attraversa le vicende su descritte. Anche Ted Hughes viveva un siffatto cammino psichico, come del resto ogni essere umano; e infatti Leroy confessa di nuovo il suo trauma maturato nel confronto col complesso paterno plathiano: ma la volontà di Sylvia di allontanarsene, alla fine, gli giova pure in questo scontro di lui con quello. Cosicché lei può proclamare una sizigia.
L’archetipo della Grande madre positiva e il blu alchemico compaiono nella strofa 49, benché la prima non abbia giocato nessun ruolo in precedenza nel dialogo. La razionalità di Leroy adesso si fa trascinare dalla femminilità di Sibyl. Completata questa prima analisi testuale, un ulteriore esame dei nomi attribuiti ai tre protagonisti del “Dialogue…” apre le porte di un significativo approfondimento. Cominciamo da Pan, il quale rivela un’ascendenza plutarchiana. Plutarco fu autore di un dialogo sugli oracoli delle divinità pagane che vengono a mancare nel momento in cui il Cristianesimo lievitando comincia a estromettere le tradizionali pratiche religiose. Il Pan plutarchiano è un essere mortale (un demone) poiché figlio di una divinità (Ermete) e di una donna.
La prima tangenza Plutarco-Plath rientra nel merito di un oracolo difettoso: il Pan plathiano, oltre che irriverente, è impreciso nelle sue predizioni. La seconda tangenza trova la sua motivazione nell’origine egizia del culto panico, che costeggia, imita e si inserisce in quello di Osiride, la tradizione di un Dio che muore e risorge appartenente a un più vasto campo di credenze diffuse. Il totalitarismo sincretistico cristiano avrà pure modo di schiacciare Pan (“buon pastore”) sulla figura di Gesù (si vedano i casi letterari di Rabelais, Spenser e Milton). Il Pan di Sylvia è dunque l’evoluzione, una maschera scenica, di quel che, nel primo dei suddetti saggi, ho definito “animus-Cristo”, il quale nel “Dialogue…” mostra la sua dialettica con quell’altro “animus Perseo”, che qui è Leroy (ossia Ted Hughes, the hero, heroic). Il nome Sibyl ha una forte impronta wildiana: non voglio dire che sia profezia di suicidio a causa di un eroe ambiguo, ma che si tratti dell’espressione del disagio plathiano. Dorian Gray peraltro è uno che non invecchia, e un proclama di questa sostanza sarà fatto nel (e dal) “Gigolò” della Plath (la cui mia analisi invito a leggere nella prima monografia citata in apertura: qui mi limito a dire l’essenziale, e cioè che il “gigolò / Dorian Gray” è l’ormai conclamato fedifrago Hughes).


NOTA

1 “The tempest”, atto IV scena I: «E al pari della struttura senza base di questa visione, / le torri incappucciate dalle nuvole, i magnifici palazzi, / i solenni templi, lo stesso grande globo, / così, tutto ciò che esso riceve, si dissolverà / e come quest’insostanziale scena è scomparsa, / non lascerà un segno dietro. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono i sogni; e la nostra piccola vita / è circondata da un sonno».